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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...



Cosa significa “scoprire”? Non è solo il rimuovere un velo, come suggerisce l’etimologia del termine dal latino dis-cooperire. Scoprire è un atto profondamente umano, un impulso ancestrale che ci guida oltre l’orizzonte, spingendoci verso ciò che ancora non conosciamo. È una forza che attraversa i secoli e le culture, plasmando il nostro essere, lasciando tracce indelebili nella storia, nella letteratura e nell’archeologia.

Il bisogno primordiale di scoprire

Immaginiamo i primi uomini che, due milioni di anni fa, uscivano dalle caverne per esplorare il mondo circostante. Non era solo una necessità legata alla sopravvivenza. L’atto di scoprire una nuova fonte d’acqua, una grotta o una pianta commestibile era già un atto di connessione con l’ambiente, un primo abbozzo di comprensione del mondo. Lo stesso spirito guidò i nostri antenati nel creare mappe mentali, strumenti di pietra e, infine, linguaggi simbolici.

L’archeologia ci restituisce queste prime scoperte. Pensiamo alle pitture rupestri di Lascaux, in Francia: non solo rappresentazioni di animali, ma una scoperta simbolica di sé stessi attraverso l’arte. In quelle grotte buie, illuminate da fiaccole tremolanti, nasceva la consapevolezza di appartenere a qualcosa di più grande, di poter interpretare e raccontare il mondo.

Scoprire il mondo e l’altro: Ulisse e le radici letterarie

Il desiderio di scoprire non è mai stato un viaggio solitario. È sempre intrecciato alla ricerca dell’altro, di ciò che ci definisce attraverso il confronto. Nessuna figura incarna meglio questa tensione dell’animo umano di Ulisse, il polytropos dell’Odissea. La sua sete di conoscenza lo spinge a oltrepassare i limiti del conosciuto, fino a trovarsi di fronte al mistero dell’ignoto.

Quando Ulisse incontra Polifemo, la sua astuzia non è solo sopravvivenza: è scoperta di sé, del potere del linguaggio e dell’identità. “Nessuno mi chiamo,” dice al ciclope, giocando con la nozione di essere e non essere. È un momento letterario potente, che riflette la complessità della scoperta: un misto di paura, ingegno e curiosità.

Il Rinascimento: l’età delle scoperte

Saltiamo di secoli. È il 1492, e Cristoforo Colombo, spinto dai venti atlantici, approda su una nuova terra. Non è solo un atto geografico, ma un cambiamento epocale nella visione del mondo. L’archeologia ci restituisce frammenti di quel primo contatto: i manufatti mesoamericani trovati nei siti conquistati, i racconti degli indios raccolti dai cronisti.

La scoperta delle Americhe è anche una scoperta dell’altro, ma non priva di contraddizioni. Se da un lato essa aprì nuove vie commerciali e culturali, dall’altro segnò l’inizio di una tragica stagione di colonialismo e sfruttamento. È qui che la letteratura si fa specchio della storia. Pensiamo al Mundus Novus di Amerigo Vespucci, che descrive con stupore il “nuovo mondo,” o alla critica di Bartolomé de Las Casas, che ci invita a riflettere sull’etica della scoperta e sulle sue conseguenze.

L’illuminismo e l’archeologia: la scoperta del passato

Alla fine del Settecento, l’impulso di scoprire si spostò nel tempo oltre che nello spazio. L’archeologia moderna nacque con la scoperta di Pompei ed Ercolano, sepolte per secoli sotto le ceneri del Vesuvio. Ogni scavo era come aprire un libro di storia dimenticato. I mosaici, le strade, le domus: tutto parlava di una civiltà scomparsa, ma ancora viva nelle sue tracce.

Scoprire il passato era scoprire sé stessi. Johann Joachim Winckelmann, considerato il padre dell’archeologia, vide nell’arte greca e romana il modello ideale di bellezza e perfezione. Le sue teorie ispirarono non solo studiosi, ma anche artisti e poeti, come Goethe, che nelle sue Elegie romane celebrò la fusione di arte, storia e natura.

Il Novecento e la scoperta interiore

Nel Novecento, scoprire divenne anche un atto introspettivo. Freud, scavando nell’inconscio umano come un archeologo della mente, mostrò che ogni individuo porta dentro di sé strati di storia personale e collettiva. Anche la letteratura seguì questa direzione. Pensiamo a Marcel Proust, che nella sua Recherche trasforma la memoria in un atto di scoperta.

Contemporaneamente, la scoperta continuava sul piano storico e archeologico. Nel 1922, Howard Carter portò alla luce la tomba di Tutankhamon, rivelando un mondo di bellezza e mistero. Ogni oggetto, dal sarcofago dorato agli strumenti quotidiani, raccontava una storia. Ma forse la scoperta più grande fu quella di capire quanto poco sappiamo del passato e quanto ancora ci sia da scoprire.

Il futuro della scoperta

Oggi, la scoperta si muove verso nuove frontiere: lo spazio, l’intelligenza artificiale, gli oceani inesplorati. Ma il senso intrinseco rimane lo stesso: scoprire è conoscere per comprendere, per entrare in relazione. È un atto che ci rende umani, un filo che lega Ulisse, Colombo, Winckelmann, Carter e noi stessi.

Una chiusa narrativa

Immaginiamo un uomo o una donna, seduti davanti a una mappa, una pagina bianca o un computer. In quel momento, essi non vedono solo ciò che hanno davanti. Vedono possibilità, storie da raccontare, mondi da esplorare. Scoprire non è mai solo scoprire l’altro. È scoprire sé stessi, in un eterno viaggio senza fine.

Francesco Violi

Nel 2019, una ricerca condotta da Luigi Vigliotti, dell’Istituto di scienze marine del CNR-ISMAR di Bologna, in collaborazione con Jim Channell dell’Università della Florida, ha proposto una spiegazione rivoluzionaria per uno dei più grandi misteri della preistoria: l'estinzione dell’uomo di Neanderthal. Pubblicata sulla rivista Reviews of Geophysics, questa scoperta offre una nuova chiave di lettura per comprendere la scomparsa di una specie che abitò l’Europa per circa 160.000 anni.

Un mistero millenario

La scomparsa dei Neanderthal, avvenuta circa 40.000 anni fa, è stata a lungo oggetto di dibattito. Le teorie spaziano dall’inferiorità tecnologica rispetto ai Sapiens alla competizione per le risorse, fino a possibili incroci genetici. Tuttavia, nessuna di queste ipotesi ha mai trovato un consenso unanime. La ricerca italiana, invece, punta il dito contro un evento cosmico: il crollo del campo magnetico terrestre.

La scienza dietro l’ipotesi

Il campo magnetico terrestre, uno scudo naturale contro i raggi ultravioletti (UV), subì un indebolimento significativo proprio 40.000 anni fa. Questo fenomeno, secondo i ricercatori, avrebbe esposto i Neanderthal a livelli pericolosi di radiazioni UV. La chiave di questa vulnerabilità risiederebbe in una variante del gene AhR, particolarmente sensibile alle radiazioni. Questa combinazione genetica, unica nei Neanderthal, potrebbe averli resi incapaci di adattarsi a un ambiente divenuto improvvisamente ostile.

Un nuovo tassello nella storia dell’umanità

Questa scoperta non solo arricchisce il dibattito scientifico, ma solleva domande affascinanti sul rapporto tra genetica, ambiente e sopravvivenza. Se da un lato ci ricorda la fragilità della vita di fronte ai cambiamenti ambientali, dall’altro ci invita a riflettere sull’importanza della ricerca interdisciplinare, che ha permesso a scienziati italiani e americani di collegare biologia, genetica e geofisica in una narrazione coerente.

Questa storia ci insegna che la scienza non è solo un viaggio verso il futuro, ma anche uno sguardo attento al passato. L’estinzione dei Neanderthal non è solo un mistero da risolvere, ma un monito sulla nostra vulnerabilità di fronte ai cambiamenti ambientali. Come i Neanderthal, anche noi dipendiamo da delicati equilibri che potrebbero essere infranti da eventi fuori dal nostro controllo.

                                                                                                                                             Francesco Violi
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