Via dall'Aspromonte di Pietro Criaco


Già sul titolo si può dire molto: "via da", è un allontanarsi, un distaccarsi da qualcosa. Sembra quasi una fuga, una rinuncia anzi un sacrificio. Infatti penso sia proprio questa la parola esatta: SACRIFICIO - fare per il sacro, fare per qualcosa di più grande. 

VIA DALL'ASPROMONTE. Collana: Velvet - 2019, pp 222 - Rubbettino Editore

Ne abbiamo parlato un giorno, davanti a un caffè, nella splendida piazza San Carlo di Torino. Due calabresi, amanti della cultura, al Caffè San Carlo a discutere di storie che appartengono a tutti. Ci siamo ritrovati poi, qualche mese dopo, precisamente nel dicembre 2019, al prestigioso Circolo dei Lettori a una serata voluta dall'associazione culturale Cooperativa Letteraria

Pietro racconta di se, d'altronde come può non esserci un pezzo di se stessi quando si scrive. Ma racconta anche di un appartenenza che è quella alla terra di Calabria, in questo caso particolare alla terra aspromontana. Una volta parlando con un antropologo mi è stato detto "dopo gli ebrei, il popolo che ha più vissuto la migrazione è quello dei calabresi". Non so se fosse una battuta o meno ma una cosa è certa: siamo migranti, noi calabresi particolarmente. Il primo peregrinare non è stato verso le Americhe ma dalle campagne alle città. Avete presente quei casi in cui si strappa una pianta d'ulivo dal terreno natio per trapiantarlo al centro di un giardino in città? Ebbene penso sia proprio questo l'effetto. Quell'ulivo non sarà più lo stesso. Ad un certo punto, e nella storia raccontata da Criaco a partire dall'alluvione del 1951 che interessò paesi come Africo, Platì e molti altri ancora, la gente è stata costretta a lasciare le proprie case per una prospettiva migliore seppur incerta. Quelle casa di fango e pietre erano le loro case. Li vi era l'anima, i canti e le storie attorno al focolare, le litanie e i pianti da lutto dei loro, anzi dei nostri antenati. Eppure la sorte, o la fortuna per alcuni, d'un tratto ha imposto la migranza. Ma soprattutto, tornado al libro di Pietro, è stata la mancanza di una strada a costringere gli abitanti di Africo vecchio ad abbandonare il giaciglio materno. Inizialmente c'è stato il tentativo di costruirla quella strada contro ogni forma di opposizione e ostacolo rappresentati una volta dal burocrate di turno, un'altra dalla figura di don Totò, il brigante di turno. Ma non il solito brigante dei soliti stereotipi sul sud. Il don Totò raccontato da Pietro Criaco impersonifica il vecchio, una dimensione ancestrale ma stabile, congelata nella sua linea spazio-tempo e scandita dai soliti ritmi cioè quelli dettati dal mutamento delle stagioni e da tutto ciò che ne consegue soprattutto per la vita dei campi e degli animali da pascolo. Una condizione esistenziale che è quella del pastore e del contadino e dove il nuovo, appunto, può spaventare. Don Totò, a mio avviso, impersonifica proprio questa paura. La paura di fronte qualcosa che possa scuotere e interrompere il ticchettio di quei ritmi. Tutto questo vissuto dagli occhi di un bambino, Andrea, protagonista e voce narrante. Osservatore di tutte le vicende che interessano la sua gente. Soprattutto quando il padre guida i propri compaesani alle costruzione di quella strada che tanto faciliterebbe le cose come permettere al dottore di giungere dalla marina e far si che quella donna, in procinto di mettere alla luce una nuova creatura, non muoia di parto. Il padre lotta, don Totò si oppone, Andrea sogna. Perché è proprio questo che in qualsiasi contesto e condizione offre la possibilità di spiccare il volo oltre le proprie altezze e misure, oltre le proprie paure.

Una storia nuova di una Calabria antica da raccontare anche ai non calabresi. Una storia per tutti. Una Calabria e un sud raccontato con gli occhi e il sentimento di chi è dovuto partire per un futuro diverso, forse migliore. Il libro di Pietro Criaco, già al 1° posto nel premio internazionale di letteratura città di Como ha ispirato il film diretto da Mimmo Calopresti "Aspromonte, terra degli ultimi".

“I calabresi mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici, come la bontà dei loro frutti e dei loro vini. Amore disperato del loro paese, di cui riconoscono la vita cruda, che hanno fuggito, ma che in loro è rimasta allo stato di ricordo e di leggenda dell'infanzia.”
CORRADO ALVARO

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