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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio


Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futuro, diventa una società chiusa, rattrappita, che perde la sua forza.
Se non sappiamo da dove veniamo, come possiamo capire dove vogliamo andare?
Lo so! sembra la solita domanda retorica ma... pensateci, pensiamoci: ogni pagina di storia nei nostri libri di scuola non è solo una lezione, ma un pezzo della grande avventura dell'umanità.
E avere la fortuna di incontrare un insegnante che sappia raccontare quella storia con passione è come avere una mappa preziosa tra le mani: ti aiuta a orientarti nella vita.

Ma perché è davvero così importante studiare la storia?
Perché, come ci ricordano due grandi storici – Jacques Le Goff e Marc Bloch – la storia non è fatta solo di eventi e di date, ma di domande e di spiegazioni.
Per Le Goff, la storia non è un semplice elenco di fatti, ma un tempo continuo che l’uomo cerca di ordinare e di capire. È un mosaico di continuità e rotture, un grande racconto che serve a leggere il passato per dare un senso al presente e a custodire la memoria collettiva di chi siamo.

Marc Bloch, invece, diceva che fare storia è come cacciare: lo storico è un cacciatore di tracce e di segreti, un artigiano che deve saper fare le giuste domande per trasformare le fonti in risposte vive. La storia, diceva, non è una scienza del passato, ma una scienza del cambiamento.
Studiare la storia, per Bloch, vuol dire imparare a guardare il mondo con occhi nuovi, con la curiosità di chi sa che ogni società è un intreccio di uomini, sogni e battaglie, e che niente resta fermo.

Ecco perché imparare la storia ci rende più liberi: perché ci insegna a pensare, a capire che anche noi possiamo lasciare un segno, proprio come chi ci ha preceduto.

Perché se ci pensate, una società prigioniera del presente non progetta futuro e non ha memoria del passato.
Cova rancori e paure, riuscendo solo ad adattarsi: al desiderio sostituisce le pulsioni, al progetto l’annuncio, alle passioni le emozioni. Diventa una società rattrappita.
E questa schiavitù del presente ha portato perfino a un mutamento antropologico dell’uomo occidentale: nella vita privata, nella sfera dei sentimenti e delle relazioni, nella dimensione pubblica – dalla politica all’economia, dalle istituzioni alle imprese.
Il presentismo celebra il primato della tecnologia che domina e ci domina, della finanza senza redistribuzione della ricchezza.
Assembla il virtuale in un’eterna connessione e rende opaco il reale, fino a farlo sfumare.
Lascia senza risposte le due grandi domande del mondo globalizzato: la sicurezza e la possibilità di crescere nel benessere.

Ma da questa prigione si può uscire, se partiamo dalla consapevolezza di quanto siamo ormai scollegati dal passato e dal futuro.
E come diceva Albert Camus: «Il senso della vita è resistere all’aria del tempo.»
Studiare la storia ci aiuta proprio a resistere, a non essere trascinati dal vento che cambia ogni giorno.
A dirci, come ripeteva Marc Bloch, che la storia non è un lusso, ma una fame di sapere, un bisogno profondo di umanità.

Fonti
  • Jacques Le Goff, Il tempo continuo della storia. Laterza, 2014.
  • Jacques Le Goff, La memoria. In Storia e memoria, Einaudi, 1982.
  • Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico. Einaudi, 1949.
  • Giuseppe De Rita, Antonio Galdo, Prigionieri del presente. Come uscire dalla società senza memoria e senza futuro. Feltrinelli, 2019.



Ogni volta che ricevo uno di quei pacchi, sento l’odore della mia terra ancor prima di aprirlo. Lo riconosco subito: quello spago, annodato con una cura che sa di antico, che tiene insieme un carico di attenzioni, affetto e ricordi. Lo spago non è un dettaglio: è una firma, un gesto paterno che mio padre ripete con scrupolo e amore, come una poesia imparata da piccolo.

Lo vedo, con i suoi riccioli bianchi e quelle sopracciglia che sembrano contenere il peso di pensieri silenziosi. Si china sul pacco, mani ferme e decise, mentre tira, avvolge, annoda. È un rito. Le dita scorrono sullo spago come un artigiano che modella l’argilla, un artista che compone una melodia invisibile fatta di gesti e tensioni. Ogni nodo è un sigillo, ogni intreccio una promessa.

Dentro quei pacchi ci sono i profumi della mia infanzia: il pane che mia madre cuoce ancora nel forno antico, seguendo la ricetta delle donne di Platì; il sapore intenso dell’olio; i dolci che sanno di festa. Sono pezzi di casa, di una vita che ho lasciato, ma che mio padre sembra voler richiamare, pezzo dopo pezzo, spago dopo spago.

Mi racconta, senza bisogno di parole, che quei nodi non sono solo per tenere insieme il pacco: sono un’eredità. Mio padre li ha imparati da suo padre, mio nonno Ciccio. Mi immagino mio nonno, mulattiere come suo padre, con il viso scurito dal sole e le mani forti di chi viveva in simbiosi con la terra. Ogni volta che partiva per un viaggio, legava i carichi con la stessa meticolosità, perché quei nodi non erano solo legami materiali: erano certezze. Un carico sicuro significava proteggere ciò che aveva di più caro, il frutto del suo lavoro e del suo amore per la famiglia.

Forse mio nonno si esercitava da ragazzo, mentre osservava la natura e i suoi ritmi. Forse ogni nodo che stringeva era un modo per sentirsi in sintonia con quella terra aspra e generosa che ti chiede tanto, ma che sa ricambiare con bellezza e abbondanza.

E mio padre ha preso quel gesto e lo ha fatto suo. Lo vedo mentre piega la testa, concentrato, e il suo silenzio è pieno di cose non dette, di parole che non ha bisogno di pronunciare. Ogni nodo è una dichiarazione: “Mi prendo cura di te. Sei sempre parte di questa casa.”

Io quei nodi cerco di scioglierli con la stessa cura con cui sono stati legati. Tagliassi lo spago, sarebbe come tradire quel gesto che ha richiesto impegno e tempo, come spezzare un legame invisibile ma profondo. Non posso tagliare quella corda. Ogni nodo merita di essere sciolto con il rispetto e la pazienza con cui è stato fatto, come se sciogliendolo, stessi decifrando un messaggio, una cura che viaggia da sud a nord. Ho una scatola piena di quei fili, annodati e accartocciati, che per me non sono solo spago: sono storie, legami che viaggiano, da un padre a un figlio.

Quando apro i pacchi, il profumo del pane e delle prelibatezze fatte in casa invade la stanza. Mi fermo un attimo, chiudo gli occhi, e in quel momento non sono più nel mio appartamento del nord: sono lì, in cucina, con mia madre che impasta e mio padre che lega con la stessa precisione e dedizione con cui un tempo i mulattieri caricavano i loro animali per attraversare l’Aspromonte.

Quei nodi sono un ponte tra generazioni, tra un mondo che cambia e una tradizione che resiste. Sono un simbolo di cura, di appartenenza, di un amore che non ha bisogno di gesti plateali, ma vive nelle cose semplici. E ogni volta che ricevo uno di quei pacchi, sento che i nodi di mio padre mi tengono ancora stretto a quella terra, a quella casa, a lui.

Nella radice dell'Erica Arborea è custodita la mia anima. Quella radice, profonda e tenace, affonda nella terra aspra dell’Aspromonte, lo stesso terreno che i miei antenati hanno solcato per secoli, in silenzio e con tenacia. Mio nonno, come suo padre e suo nonno prima di lui, era mulattiere: si svegliava prima dell’alba, preparava le bisacce e si metteva in cammino, attraversando il cuore della montagna a dorso di mulo. Tra quelle bisacce, portava spesso radici d'erica, raccolte con mani esperte. Radici che, nelle mani di artigiani, si trasformavano in pipe destinate a viaggi incredibili, alcune addirittura oltre l’Oceano, fino in America, seguendo la stessa rotta degli emigranti del mio paese. Le pipe diventavano ricordi di casa, tenuti stretti dai nostri compaesani come simboli di un mondo lontano, carichi del profumo della nostra terra.

Il mio trisavolo era conosciuto come Cocciularu, soprannome che ancora oggi echeggia nella mia famiglia. "Cocciulo" è il nome dialettale di una piccola conchiglia di terra, usata per custodire i bachi da seta nella produzione della sericoltura. Il mio trisavolo commerciava queste conchiglie, portandole nei suoi viaggi con il mulo, unendo così il mondo del lavoro alla tradizione. Quel nome, Cocciularu, era un simbolo d'ingegno e di duro lavoro, un soprannome che narrava la storia di un uomo che sapeva unire le sue radici alla sua vocazione.

Il nostro sangue scorre lungo una linea ininterrotta di mulattieri. Mio nonno, fino agli anni '50, continuò a fare il mestiere di suo padre Pasquale, che a sua volta l’aveva ereditato da Francesco, generato da Antonio, a sua volta figlio di Francesco, e ancora da Rocco, Assunto e un altro Francesco, mulattieri da generazioni. Tre secoli di uomini che conoscevano il peso delle bisacce e il suono dei passi lenti del mulo sulle pietre. Essere mulattiere significava partire quando il cielo era ancora buio, affrontare nebbie fitte, neve, piogge e intemperie. Significava percorrere strade impervie, senza mai fermarsi di fronte a nulla, perché la merce doveva arrivare a destinazione.

Un tempo li chiamavano vaticali, dal latino "viaticus," viaggiatori, pellegrini delle loro giornate. In passato si servivano di carretti per il trasporto, ma poi solo del mulo, perché il mulo è duro, forte, resistente. Era il compagno fedele che poteva sopportare il freddo e la fatica; eppure, persino lui, a volte, soccombeva insieme al suo padrone sotto il peso della montagna e delle sue intemperie.

I miei antenati sono stati viaggiatori instancabili, erranti nel tempo e nello spazio di quei sentieri che li vedevano andare e tornare, sempre fedeli alla loro missione. Questo legame con il passato è viscerale, un culto che porto nel sangue. Sono pellegrino anche io, non di strade ma di memorie, e ogni passo che faccio verso la scoperta della mia storia è un omaggio a loro, agli uomini e alle donne che mi hanno preceduto e che, come radici profonde, ancora oggi mi sorreggono.

Francesco Violi di Raimondo




 


Intanto bisogna precisare che l’originale anglosassone è political correctness, cioè “correttezza politica” e non “politicamente corretto”, quindi a priori si parte male e forse ora si sta esagerando. Questa estrema attenzione degli aspetti formali sta diventando estremismo. Sta succedendo come con la parola democrazia. Se ne abusa a tal punto che in nome della democrazia e della libertà di parola io posso scrivere il caxxo che mi pare. Vero? Io ne ho le balls piene di questi pregiudizi liberal-moralisti dove concetti linguistici vengono sostituiti con nuovi idiomi che, finalmente, tutelano tutto e tutti. Non fraintendetemi, decliniamo pure i ruoli al femminile, giusto, e sappiamo tutti che si usa dire "fratelli" raggruppando fratelli e sorelle. Il latino frater indica ciascuno dei figli nati dagli stessi genitori. È un senso collettivo della nostra grammatica che non vuole essere assolutamente sessista. Ma cosa c'entrano adesso Dumbo, gli Aristogatti e Peter Pan? Dai perché ogni convenzione consolidata deve per forza rappresentare un possibile attacco a qualche individuo?  

Dumbo (1941), Peter Pan (1953) e gli Aristogatti (1953) io continuerò a farli guardare ai miei figli anche se non hanno ancora compiuto i 7 anni, il nuovo limite di età che concede loro la visione ma sempre in presenza di un adulto (è il momento in cui la sala tv diventa zona arancione). Per quanto riguarda l'elefantino più famoso al mondo il problema è nel canto degli afroamericani che lavorano nelle piantagioni, Peter Pan chiami gli indiani pellerossa mentre fra le avventure di Duchessa e dei suoi micini spunta il siamese Shun Gon, troppo caricaturizzato con i suoi occhi a mandorla e le bacchettine. Ma scusate! allora è stato scordato Romeo che canta "Ma pure da emigrato, Mica so’ cambiato. Io so’ Romeo, Er mejo del Colosseo" Non pensate che in questo caso (siamo nel '53) qui vi è un'allusione agli emigranti italiani, forse latin lover ma comunque sia un pò girovaghi? 

E Semola? Ragazzino mingherlino e maltrattato. Cosa dobbiamo dire? E perché Robin Hood è impersonato da una volpe? Fossi un animalista denuncerei la Disney. Gli altri animali sono meno furbi del quadrupede che scaglie le frecce? Che ne direbbe Esopo?

Sapete qual è il punto? Non bendare i bambini o non permettere loro di vedere questi bellissimi cartoni animati ma accompagnarli in questo, attendere il momento in cui ci chiederanno ma perché Peter Pan li chiama pellerossa? Perché sono di colore quelli che raccolgono il cotone? E perché il siamese è disegnato così? Allora sarò io genitore a raccontare loro delle storie che narrano di identità e razze (posso ancora scrivere questa parola?), di pregiudizi e modi di dire, senza togliere la verità alla storia e alle identità ma raccontando come sono andate le cose, parlando dei diversamente abili, dei neri, degli ebrei, dei gay, insegnando quali espressioni verbali usare, definendoli con criterio, se è necessario, non perché di gusti e orientamenti sessuali diversi, o di colore della pelle diverso, ma perché uomini (si qui intendo anche le donne) e affinché non si creino delle idee e dei giudizi sbagliati. Noi genitori (e qui non intendo solo chi "genera" - non si sa mai!) siamo in grado di educare vero? educĕre -"trar fuori" il loro pensiero e, passo dopo passo, tener vivo il senso critico di fronte al reale (come dovrebbe fare un bravo insegnante).

Questo revisionismo storico lo trovo eccessivo e fuorviante. Anzi odio proprio questo moralismo! (non saprei come altro definirlo)

E aggiungo una cosa: Sloth (I Goonies - 1985) indossa la maglietta con la S di Superman!

Ennio Morricone (Roma, 10 novembre 1928 – Roma, 6 luglio 2020)



Io Ennio Morricone sono morto.. lui stesso l'ha composto. E si, si tratta di una composizione, ben pensata. Una parola dopo l'altra come una nota dopo l'altra. Così come pensava e strutturava le sue opere, ha pensato bene di scrivere lui stesso il suo necrologio. Nel 2010 andai a un suo concerto tenutosi a Torino. Al rientro verso casa, io e il mio amico Luca, commentavamo quanto fosse stato eccezionale e unico l'ascolto di quelle note, quando a un tratto mi cadde l'occhio su un mega poster davanti un'edicola. Quei manifesti giganti che pubblicizzano gli eventi. Inutile dirvi che quel poster è appeso in casa mia. Non potevo lasciarlo la, capitemi! 
E comunque ho pianto! posso dirlo vero? Non sono riuscito ad arrivare al punto di poter stringere la mano al Maestro ma mi si è stretto il cuore alla notizia. Chi suonerà ancora quei pezzi? Chi li penserà? C'era una volta Morricone. Chi sarà in grado di comporre quella magia? Forse è questo che mi spaventa. La paura non ci possa essere un altro grande della musica come lo è stato Morricone. E noi abbiamo bisogno della musica come abbiamo bisogno della poesia e di un bel film che ha una bella musica dietro che è poesia.

Si alzava presto, un po' di ginnastica, colazione e poi subito a lavoro. Un foglio di carta, una matita ed il pentagramma, il calderone dove mescolava la genialità, il sentimento, il cigolio di una porta, lo scricchiolio di un passo in agguato e il fischio di un uomo in attesa. Ed ecco la magia. Non un'opera usciva fuori senza il giudizio della moglie Maria, compagna per tutta la vita. “Nell'amore come nell'arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l'intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata. E naturalmente la fedeltà." E lui, Ennio Morricone, ha tenuto duro, è stato fedele alla sua musica, quella che gli veniva dal cuore. Ne ha fatto una Mission.

Mio padre mi ha iniziato alla colonne sonore di Morricone attraverso i western del grande Sergio Leone, suo compagno di classe in fanciullezza e amico. E quant'è vero ora che non possiamo guardare la scena di quando il buono, il brutto, il cattivo quindi il biondo, Tuco e Sentenza si trovano al cimitero per l'ultimo duello, senza la musica, ma possiamo benissimo ascoltare il pezzo musicale immaginandoci tutto. Quegli sguardi che si studiano, si sospettano e si aspettano per l'ultima mossa. Un sigaro in bocca e due colpi di pistola. Ma riuscite a guardare "l'estasi dell'oro" senza quell'adrenalina partorita dalla colonna sonora celebre anche per la voce della bellissima Susanna Rigacci?
E no, non possiamo. Lo stesso Tuco (Eli Wallach) avrebbe fermato la sua corsa, avrebbe guardato al centro dell schermo e detto "hei biondo senza musica non si corre"

Clint Eastwood, Western, Movies, Attore, Spaghetti 
Sono grato per questi doni che Dio ci fa. Ci mette davanti musicisti, poeti, sportivi, grandi uomini che nella loro piccolezza e umiltà, come quella dimostrata sempre da Morricone, si rivelano strumenti di un Qualcosa più grande che noi cerchiamo. Senza sapere come e perché ma ne abbiamo bisogno. Abbiamo la necessità di qualcosa che vada oltre le nostre misure e le stature che ci diamo. Abbiamo la necessità della Bellezza.

Continuiamo a leggere poesie, continuiamo ad ascoltare la musica, quella bella! 
A proposito: "scion scion"!









Quante volte abbiamo sentito questa frase, diventata quasi un modo di dire. Ebbene ci siamo arrivati anche questa volta, anche con questo caos, queste incertezze, queste news comunicate alle 10 di sera o seduti su una cattedra. Tabelle, statistiche, rossetti che spiccano e decreti che sfiancano. La maturità in mascherina in file per 5 col resto di booo, vedremo, intanto spostati che disinfettiamo la sedia e misuriamo la febbre. I guanti non servono; distanti 2 m. Da domani sentiremo nuovamente suonare la campanella. Quel suono che ci accompagnava quotidianamente e scandiva le paure degli orali e gli incontri in corridoio, "dammi un cinque frate". Domani il cinque non possiamo ancora darcelo, forse pugno ma meglio gomito. E tra una gomitata e l'altra quella campanellina suonerà e saremo felici, non la sentiremo e basta ma la ascolteremo scusandoci però innanzi al suono di ben altre campane. Si scusateci, non abbiamo potuto salutarvi e accompagnarvi dietro la macchina ma domani vi penseremo. Racconteremo come ci siamo sentiti. Perché vogliamo dircelo. Tra un meriggiare pallidi e assorti, il gre gre di ranelle, udiremo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Ascolta come stai, come ti sei sentito in questo periodo tu studente che studente non sei stato. Lasciami chiederti, porre una domanda a me che docente sono e non sono stato. Il tuo volto in uno schermo come una maschera pirandelliana forse. È stata tutta una farsa? No perché ci siamo cercati, abbiamo atteso e siamo arrivati di nuovo in classe, seduti in quel banco. Quei graffiti domani, o ragazza, ti sembreranno le pitture rupestri dell'uomo che fu e che ancora chiede di essere ascoltato. È il cuore dell'uomo che chiede di essere ascoltato. È il canto di Ulisse che valica muri con cocci aguzzi di bottiglie. Domani saremo tutti più maturi. Lo siamo già. Domani sarò docente, ancora. In docere, con cuore in ascolto per te. E ascolteremo ancora il suono di una campanella, il passo solito della bidella che è poesia. Buona maturità. Forza ragazzi.


Prof ma l'esame come sarà?


Francesco Violi
Un prof in ascolto

Rileggendo questa poesia con occhio critico, mi accorgo di come ogni verso rifletta una tensione intima e viscerale, un confronto tra l’anima e le radici che definiscono chi sono. Ho voluto esplorare il concetto di appartenenza, non come idea astratta ma come legame tangibile, quasi corporeo, tra la mia identità e la terra che lascio. È la pelle, infatti, a "sentire" quel contatto con la terra, a ricordarmi che le mie origini sono una parte viva e persistente di me.

Dal punto di vista stilistico, mi sono lasciato guidare dalle immagini arcaiche di pastori e contadini, elementi che per me incarnano una Calabria ancestrale, quella che mi ha cresciuto. Ogni immagine si collega non solo alla memoria personale, ma anche a una memoria collettiva, come se queste voci e queste rughe fossero parte di una storia universale.

Forse è proprio qui che si trova la forza della poesia: nel bilanciare il particolare e l’universale, nel trasformare una ferita personale in un’esperienza condivisibile, rendendo il lettore partecipe del mio strappo interiore. Scrivendo, ho cercato di portare chi legge a sentire quell’“argilla di Dio”, quella terra che accoglie e trattiene, a vivere l’attesa paziente e immutabile di chi resta.

Ogni volta quando riparto!
Ogni volta e' come se la pelle sentisse il legame con la terra,
come se si attaccasse ad essa, a mischiarsi come fango,
come l'argilla di Dio. 
Uno scontro e incontro di particelle.

La pelle alla terra e la terra l'attende
come l'attesa di una madre, come la pazienza di un padre.
Ogni volta e' come se la pelle sentisse gli antichi richiami dei pastori,
i canti dei contadini, che solo gli alberi conoscono

e il vento di tanto in tanto accompagna come voce di fantasma
fra vecchie mura di vecchie case di un vecchio paese.
Ogni volta alla partenza stralci di pelle rimangono a terra.
Quasi a segnare delle tracce per un ricordo perenne!

E negli occhi l'immagine di rughe come solchi d'aratro.
Come una foto dell'avo in divisa da soldato.
Ogni volta in terra di Calabria.
Ed un nuovo taglio sul velluto del cuore spunta a rimembranza del tutto.

Ogni volta quando riparto!
Questa è l’acqua, questo è vivere consapevoli: perché Wallace è qui

In Questa è l'acqua, David Foster Wallace ci conduce dentro una verità semplice, quasi banale: viviamo immersi in una realtà che spesso ci sfugge, quasi come pesci che non notano l'acqua in cui nuotano. Ho scelto di inserire questo testo nel blog perché incarna una delle riflessioni centrali che da sempre guidano il mio pensiero: l'invito a osservare, a decifrare il quotidiano senza darlo per scontato, a scoprire il valore in ogni piccolo pezzo di vita, anche in ciò che può sembrare insignificante o rotto.

Wallace ci sfida ad alzare lo sguardo, ad accorgerci di tutto ciò che facciamo automaticamente e a scegliere una consapevolezza che ci permetta di andare oltre il nostro “default setting.” Questa consapevolezza non è solo una tecnica di sopravvivenza, ma una forma d’arte, una strada verso un’esistenza più ricca, dove anche le piccole esperienze possono brillare.

Ho inserito Questa è l'acqua qui, su Cocci e Rottami, perché Wallace ci insegna a non fuggire dalla complessità, ma a scavare in essa per trovare un senso più profondo, una motivazione per vivere non solo per inerzia ma per scelta. Perché alla fine, siamo tutti immersi in un’acqua che può diventare cristallina solo se la guardiamo con nuovi occhi.



Questa è l'acqua di David Foster Wallace

Ci sono questi due giovani pesci che nuotano insieme, e a un certo punto incontrano un pesce più vecchio che nuota in direzione opposta, il quale fa un cenno di saluto e dice, “‘Giorno, ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e infine uno dei due si rivolge all’altro e fa, “Che diavolo è l’acqua?”

Se temete che io intenda presentarmi a voi come il pesce vecchio che spiega cos’è l’acqua, non preoccupatevi. Non sono il vecchio e saggio pesce. Il punto fondamentale della storiella dei pesci è che le realtà più ovvie, ubique e importanti spesso sono quelle più difficili da vedere e di cui è più difficile parlare. Detto in questi termini, naturalmente, non è che un luogo comune -ma il fatto è che, nelle trincee quotidiane dell’esistenza adulta, i luoghi comuni possono essere una questione di vita o di morte. Potrebbe suonare come un’iperbole, o un’insensata astrazione. Scendiamo nel concreto, allora…

Viene fuori che una grossa percentuale delle cose di cui tendo ad essere automaticamente sicuro è completamente sbagliata e illusoria. Ecco un esempio dell’assoluta erroneità di qualcosa di cui tendo ad essere automaticamente certo: ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali -ci siamo capiti. Ma vi prego, non temete che mi metta a predicarvi la compassione o l’empatia o le cosiddette “virtù”. Non è una questione di virtù -è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé.

Per fare un esempio, poniamo che oggi sia una giornata normale, vi alzate al mattino, vi recate sul luogo del vostro impegnativo lavoro, e lavorate sodo per nove o dieci ore, e alla fine della giornata siete stanchi, sfiniti, e volete soltanto tornare a casa, fare una buona cena e magari rilassarvi per un paio d’orette e poi andare in branda presto, perché il giorno dopo vi toccherà alzarvi e rifare tutto da capo. Ma in quel momento vi ricordate che non avete più cibo a casa -non avete avuto tempo per fare la spesa questa settimana, per via del vostro impegnativo lavoro- e quindi adesso, dopo il lavoro, vi tocca mettervi in auto e andare al supermercato. Siamo alla fine della giornata lavorativa, e il traffico è pesante, per cui ci vuole più tempo per arrivare al negozio, e quando finalmente siete lì il supermercato è affollatissimo, perché naturalmente è l’unico momento in cui tutti gli altri lavoratori riescono ad andare a far compere, e il negozio è di una luminosità fluorescente e spaventosa, e al suo interno vengono diffuse innocue musichette che uccidono l’anima, o un pop commerciale, ed è l’ultimissimo posto in cui vorreste essere, ma non è che potete entrare e uscire velocemente: dovete vagare lungo tutte le corsie affollate dell’immenso e iperilluminato negozio per trovare ciò che volete, e dovete manovrare il vostro carrello pieno di cianfrusaglie in mezzo a tutte le altre persone stanche che si affrettano con i loro carrelli, e poi naturalmente ci sono quei vecchi glacialmente lenti e gli sballati e i ragazzi che vi bloccano la corsia, e dovete stringere i denti e cercare di chiedere loro gentilmente di lasciarvi passare, e dopo tutto questo, alla fine, avete le vostre provviste per la cena, solo che adesso viene fuori che non ci sono abbastanza casse aperte, malgrado sia l’ora di punta, per cui la fila è incredibilmente lunga, che è una cosa stupida e vi fa infuriare, ma non potete riversare la vostra furia sulla donna che sta lavorando freneticamente alla cassa.

Ad ogni modo, riuscite ad arrivare in cima alla fila, pagate il vostro cibo, e aspettate che l’assegno o la carta vengano riconosciuti da una macchina, e quindi vi sentite dire “buona giornata” in una voce che è chiaramente la voce della morte, e poi vi tocca portare le vostre inquietanti e logorate buste di plastica con dentro la vostra spesa nel vostro carrello attraverso il parcheggio affollato, dissestato e ghiaioso, e cercare di sistemare le buste nella vostra macchina in modo che durante il ritorno a casa la spesa non fuoriesca dai sacchetti e si metta a rotolare nell’abitacolo, e poi dovete ritornare a casa guidando attraverso il traffico lento, pesante e infestato di SUV dell’ora di punta.

Il punto è che piccole e frustranti cazzate come questa sono esattamente quelle che richiedono una scelta. Perché le code e le corsie affollate e le lunghe file alla cassa mi danno tempo di pensare, e se non compio una scelta cosciente riguardo al modo di pensare e alle cose a cui prestare attenzione, mi ritroverò incazzato e depresso ogni volta che vado a far compere, perché la mia configurazione naturale è la certezza che situazioni come questa in realtà riguardano solamente me, la mia fame e la mia stanchezza e il mio desiderio di tornarmene semplicemente a casa, e sembrerà che tutti gli altri mi stiano solamente tra i piedi, e chi è tutta questa gente che mi sta tra i piedi? E guardate quanto sia repellente la maggior parte di loro, e quanto sembrino stupidi e bovini e vitrei e inumani qui in coda alla cassa, o quanto siano fastidiose e scortesi le persone che parlano a voce alta al telefonino in mezzo alla fila, e guardate quanto tutto questo sia profondamente ingiusto: ho lavorato sodo tutto il giorno, sto morendo di fame e sono stanco, e non posso neppure tornare a casa a mangiare e rilassarmi per colpa di questi maledetti stupidi.

Oppure, se mi trovo in una modalità socialmente orientata della mia configurazione standard, posso trascorrere il tempo in mezzo al traffico ad arrabbiarmi e sentirmi disgustato di fronte agli enormi, stupidi e ingombranti SUV e Hummer e pickup V12 che bruciano le loro tossiche e menefreghiste taniche da quaranta galloni di benzina, e posso rimuginare sul fatto che gli adesivi patriottici o religiosi sui paraurti sembrano trovarsi sempre sui veicoli più grandi e disgustosamente menefreghisti, guidati dai conducenti più brutti, arroganti e aggressivi, che di solito stanno parlando al telefonino mentre tagliano la strada alla gente per poter avanzare di sei stupidi metri nella coda, e posso pensare a quanto ci disprezzeranno i figli dei nostri figli per aver sprecato tutto il carburante del futuro e probabilmente per aver incasinato il clima, e a quanto siamo tutti viziati, stupidi e disgustosi, e a quanto faccia schifo tutto questo…

Se scelgo di pensare a questo modo, bene, lo facciamo in tanti -non fosse che pensare in questo modo tende ad essere così semplice e automatico che non si tratta di una scelta. Pensare in questo modo è la mia configurazione standard. È il modo automatico e inconsapevole in cui penso quando mi trovo in quelle situazioni noiose, frustranti e affollate della vita di un adulto nelle quali agisco in base all’automatica e inconsapevole convinzione che io sono il centro del mondo, e che i miei bisogni immediati e i miei sentimenti sono ciò che dovrebbe determinare le priorità del mondo. Il fatto è che ovviamente ci sono modi diversi di pensare a situazioni di questo tipo. In questo traffico, tutti questi veicoli fermi e ozianti sulla mia strada: non è impossibile che alcune delle persone in questi SUV abbiano subito in passato qualche orribile incidente d’auto, e per loro adesso guidare è così traumatico che i loro psicoterapeuti hanno praticamente ordinato loro di prendersi un grande e grosso SUV, in modo che si sentano abbastanza sicuri da poter guidare; o che l’Hummer che mi ha appena tagliato la strada potrebbe essere guidato da un padre il cui figlioletto giace ferito o malato nel sedile di fianco a lui, e che cerca di raggiungere in fretta l’ospedale, e la sua fretta è assai superiore e più giustificata rispetto alla mia -sono io, in realtà, a stargli tra i piedi.

Di nuovo, vi prego di non pensare che io vi stia dando qualche consiglio morale, o che stia dicendo che “dovreste” pensare in questo modo, o che qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perché è difficile, richiede volontà e sforzo mentale, e se siete come me in alcuni giorni non sarete in grado di farlo, o più semplicemente non ne avrete voglia. Ma la maggior parte dei giorni, se siete abbastanza consapevoli da poter scegliere, potete scegliere di guardare diversamente questa signora grassa, vitrea e ipertruccata che ha appena urlato in faccia al figlioletto mentre siete in coda alla cassa -forse non è sempre così; forse è stata sveglia per tre notti di fila a reggere la mano del marito che sta morendo di cancro alle ossa, o forse questa stessa donna è l’impiegata di basso livello della motorizzazione che non più tardi di ieri ha aiutato il vostro coniuge a risolvere un angosciante problema di protocollo tramite un qualche atto di cortesia burocratica. Chiaramente, nessuna di queste cose è probabile, ma al tempo stesso non è impossibile -dipende soltanto da ciò che volete prendere in considerazione. Se siete automaticamente sicuri di conoscere qual è la realtà, e chi e cosa è davvero importante -se volete operare secondo la vostra configurazione standard- allora voi, come me, non prenderete in considerazione possibilità che non siano insignificanti e fastidiose. Ma se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle -compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. Non è che questa roba mistica sia necessariamente vera: l’unica Verità con la V maiuscola è che siete voi a decidere in che modo cercare di guardarla. Siete voi a decidere coscientemente cosa ha significato e cosa non ne ha. Siete voi a decidere cosa venerare.

Perché c’è un’altra cosa vera, ed è questa: nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale -Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici- è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti -se è in essi che riponete il vero significato della vita-, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. In un certo modo, tutta questa roba la sappiamo già -è stata codificata in forma di miti, proverbi, cliché, tranquillizzanti, epigrammi, parabole: lo scheletro di ogni grande storia. Il trucco è mantenere salda davanti a voi la verità nella consapevolezza quotidiana. Venerate il potere -vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza -finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.

La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. La nostra attuale cultura ha imbrigliato queste forze in modi che hanno procurato una straordinaria ricchezza, comodità e libertà personale. Libertà di essere padroni dei nostri minuscoli regni, grandi quanto un cranio, da soli al centro dell’intera creazione. Questo tipo di libertà ha molti pregi. Ma ci sono molti tipi diversi di libertà, e del tipo più prezioso non sentirete parlare granché nel grande mondo dei trionfi e dei risultati e delle esibizioni. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” -la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito.

So che questa roba probabilmente non suona divertente e briosa o particolarmente ispirante. Ma è, per quanto mi è dato di vedere, la verità, al netto di un bel po’ di stronzate retoriche. Naturalmente, ne potete pensare quello che vi pare. Ma per favore, non liquidatelo come il sermone di un qualche professorone che agita il dito. Niente di tutto questo ha a che vedere con la morale, la religione o i dogmi, o con i grandi ed eleganti dilemmi sulla vita dopo la morte. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda la possibilità di riuscire ad arrivare ai trent’anni, o ai cinquanta, senza che vi venga voglia di spararvi un colpo in testa. Riguarda la semplice consapevolezza -consapevolezza di quello che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente:

"Questa è l'acqua, questa è l'acqua; dietro questi eschimesi c'è molto più di quello che sembra". Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia...adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco. 

Giovanni Paolo II: una vita di fede, coraggio e umanità

La figura di Karol Józef Wojtyła, conosciuto al mondo come Papa Giovanni Paolo II, mi ha sempre affascinato profondamente. Nato il 18 maggio 1920 a Wadowice, in Polonia, e eletto Papa il 16 ottobre 1978, Giovanni Paolo II è stato non solo un leader spirituale, ma anche un uomo che ha incarnato con straordinaria umiltà e determinazione l’essenza della fede e del coraggio. Raccontare la sua storia nel mio blog è per me un omaggio a un uomo che, pur segnato dalle difficoltà e dalle tragedie personali, ha saputo superarle per abbracciare un’intera umanità con amore e speranza.

Giovanni Paolo II ha vissuto una vita di resilienza: ha perso la madre quando era solo un bambino, il fratello maggiore nel 1932 e il padre nel 1941. Durante l’occupazione nazista, lavorò in una cava e in una fabbrica chimica per evitare la deportazione in Germania e per sostenersi economicamente. Fu ordinato sacerdote il 1º novembre 1946, proprio mentre la Polonia tentava di rialzarsi dalle macerie della guerra. Ogni tappa della sua vita sembra un simbolo di rinascita, una prova di come, persino nei momenti più bui, la fede possa donare forza e speranza.

Il 16 ottobre 1978, quando i cardinali lo elessero Papa, Giovanni Paolo II portò con sé una visione universale e missionaria, culminata in 104 viaggi apostolici in tutto il mondo. Il suo pontificato, uno dei più lunghi della storia, durato quasi 27 anni, fu segnato da gesti di riconciliazione e di dialogo interreligioso. È stato il primo Papa a entrare in una sinagoga, a visitare una moschea e a promuovere incontri di preghiera interreligiosi ad Assisi. La sua capacità di attraversare confini e barriere lo ha reso un simbolo di unità e di apertura, un "pellegrino di pace" in ogni angolo del globo.

Una delle testimonianze più belle di questo messaggio universale si ritrova nella canzone Un uomo venuto da molto lontano, interpretata da Amedeo Minghi. Questa canzone, dedicata a Giovanni Paolo II, riesce a catturare l’essenza del suo viaggio umano e spirituale. Minghi descrive Giovanni Paolo II come “un uomo venuto da molto lontano,” richiamando il percorso di un giovane polacco che, dalle strade di Cracovia, ha raggiunto il cuore della Cristianità e, da lì, l’intero mondo. Ogni verso della canzone è un invito a ricordare il Papa non solo come figura religiosa, ma come uomo che ha saputo interpretare la missione di Cristo attraverso l’amore e la compassione per i più deboli, attraverso la capacità di ascoltare e accogliere.

Ascoltando quella melodia, percepisco la profondità della sua umanità e il senso di prossimità che Giovanni Paolo II sapeva ispirare. La sua storia mi invita a riflettere su quanto possiamo fare, ciascuno di noi, per vivere in maniera autentica, per abbracciare il mondo con quella stessa forza e serenità che lui ci ha insegnato. Raccontare la sua vita è un invito a non dimenticare il potere del perdono, la potenza della fede e la bellezza dell’apertura verso l’altro.

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