ritratto di Leonzio Pilato di M.Carnevali |
Nelle vie di Padova, dove l’inverno del 1358 soffiava gelido sulle pietre consumate dai passi degli uomini, si aggirava una figura che sembrava uscita da un mito antico. Alto, allampanato, con una barba ispida che pareva scolpita dalla tempesta, Leonzio Pilato era più un enigma che un uomo. I suoi occhi profondi e inquieti raccontavano storie di terre lontane, dove il confine tra cultura greca e latina si dissolveva in un gioco di luci e ombre.
Leonzio millantava origini bizantine, raccontando con fierezza di essere tessalo, come il grande Achille, e sdegnava con fermezza chi lo voleva semplice calabrese. In effetti, la sua parlata tradiva sfumature della Piana di Seminara, dove probabilmente aveva respirato il vento della Magna Grecia. Ma per lui, quella era solo una tappa; la sua vera patria era la cultura universale, quella che sfidava il tempo e le convenzioni.
Un incontro tra giganti
A Padova, l’uomo che sapeva di tempeste incontrò Francesco Petrarca. Il poeta, affascinato e infastidito, ne scrisse a Giovanni Boccaccio con toni ambivalenti. Lo descrisse come rozzo e bizzarro, ma con un’energia intellettuale impossibile da ignorare. Fu proprio Boccaccio a intravedere in Leonzio una scintilla che avrebbe potuto illuminare il buio del Medioevo con la luce dell’antica Grecia.
Nel 1360, su iniziativa di Boccaccio, Leonzio si trasferì a Firenze. Qui, accolto nella casa del grande narratore, insegnò greco presso lo Studio. Le sue lezioni erano frequentate da pochi, ma tra quei pochi c’era Boccaccio stesso, che lo ascoltava con attenzione mista a incredulità.
Leonzio non era un insegnante convenzionale. Le sue maniere rudi e il suo aspetto poco rassicurante mal si adattavano agli ambienti raffinati dell’umanesimo nascente. Tuttavia, ciò che mancava in grazia, era compensato dalla sua conoscenza profonda e dal suo impegno. Tradusse per la prima volta in latino l’Iliade e l’Odissea, rendendo Omero accessibile a un mondo che ne aveva perso le parole.
Il sogno di un ritorno alle origini
Non era facile vivere nella luce di Petrarca e Boccaccio. Leonzio portava il peso di un’eredità culturale che voleva difendere e diffondere, ma che sembrava sempre sfuggirgli. Nel 1363 lasciò l’Italia per Costantinopoli, spinto dal desiderio di recuperare manoscritti greci. Il viaggio era un ritorno alle sue radici, un tentativo di riconciliarsi con quel passato che sentiva suo ma che gli altri non gli riconoscevano del tutto.
Fu proprio nel viaggio di ritorno che il destino si abbatté su di lui con la forza di un poema tragico. Nell’estate del 1365, mentre navigava verso l’Italia, una tempesta colse la sua nave. Colpito da un fulmine, Leonzio morì nel mare che aveva tanto amato, tra onde furiose che sembravano cantare un’epopea a lui dedicata.
L’eredità di Leonzio
Leonzio Pilato non era un uomo facile da amare, né da comprendere. Eppure, il suo lavoro aprì una breccia tra due mondi. Petrarca ricevette le sue traduzioni con ritardo e non senza critiche, ma fu ispirato a scrivere la sua ultima lettera agli scrittori antichi, indirizzata ad Omero. Boccaccio, dal canto suo, immortalò il calabrese grecofono nelle sue opere, consegnandolo all’eternità.
Oggi, Leonzio rimane una figura ambivalente: un uomo diviso tra la Calabria e Bisanzio, tra il passato e il futuro, tra le radici di un’origine mai accettata e la tempesta di un destino che lo rese immortale. Era un ponte tra mondi, e come tutti i ponti, fu costantemente attraversato, messo alla prova e infine ricordato come colui che, con il suo sacrificio, avvicinò due culture.
E così, nell’eco lontana delle sue traduzioni, si può ancora sentire il suono delle onde e il rombo del fulmine che pose fine alla sua vita. Ma soprattutto, si può udire una voce che sussurra: “Anch’io appartengo al mito.”