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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...

C’era una strana quiete sul crinale dell’Aspromonte quel giorno. L’aria era pregna del profumo di pini e di erbe selvatiche, mentre il sole si insinuava tra le vette come a cercare di svelare un segreto nascosto per secoli. E forse lo aveva trovato.

In un punto impervio, difficile da raggiungere, alcuni volontari del Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI) si imbatterono in affioramenti di pietre coperte di muschio. Quelle pietre, apparentemente ordinarie, erano in realtà tracce di una muraglia antica, estesa per oltre 2,7 km, riconducibile, con molta probabilità, al “muro di Spartaco.”

Studiando le tracce di insediamenti magnogreci e romani nel Parco dell’Aspromonte, un team di esperti formato dal professor Domenico Vespia del Gea (Gruppo Escursionisti d’Aspromonte), dal professor Franco Prampolini dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, dagli architetti Rocco Gangemi e Dina Porpiglia, e da altri ricercatori, giunse alla conclusione che il manufatto fosse antico per posizionamento, architettura e struttura, e attribuibile a un’azione militare in epoca repubblicana.

Un passato che parla

Era il 73 a.C. quando Spartaco, un gladiatore trace di straordinario carisma, fuggì dalla scuola gladiatoria di Capua insieme a circa 70 compagni, tra cui i suoi principali luogotenenti, Crixo e Enomao. La loro rivolta si trasformò presto in una guerra su vasta scala, attirando migliaia di schiavi in cerca di libertà. Spartaco, leader abile e stratega, fu in grado di infliggere numerose sconfitte all’esercito romano, sfruttando il terreno accidentato e la mancanza di coesione tra i suoi nemici.

Il Senato romano, inizialmente sottovalutando la ribellione, inviò comandanti di basso rango come Gaio Claudio Glabro, che subì una disastrosa sconfitta. Solo quando la ribellione assunse proporzioni enormi, Roma incaricò Marco Licinio Crasso, un ricco e spietato generale, di sopprimere la rivolta. Crasso, sostenuto dalla disciplina e dalla brutalità delle sue legioni, impiegò tattiche spietate, come la decimazione, per ristabilire il controllo e fermare l’avanzata dei ribelli.

Nonostante il genio strategico di Spartaco, la divisione interna tra i ribelli, con Crixo che guidò un gruppo separato di Galli e Germani verso una rovinosa sconfitta, indebolì le forze insurrezionali. La battaglia finale avvenne nel 71 a.C., nei pressi del fiume Silaro. Spartaco morì combattendo, e i suoi seguaci furono massacrati o crocifissi lungo la Via Appia, un monito cruento alla ribellione.

L’archeologia della resistenza

Il ritrovamento è stato anche al centro di un convegno a Cittanova, dove sono intervenuti il professor Paolo Visonà, docente di fama internazionale all’Università del Kentucky, il professor George M. Crothers, antropologo e geofisico, Margo T. Crothers, e James R. Jansson, fondatore della Foundation for Calabrian Archaeology. Attraverso sopralluoghi e studi interdisciplinari, il team ha contribuito a confermare la rilevanza storica e culturale del muro.

Un’eredità dimenticata

L’Aspromonte, così remoto e misterioso, è stato spesso teatro di storie dimenticate. Questo muro, che potrebbe appartenere alla ribellione di Spartaco, ci invita a riflettere su un passato fatto di lotte per la libertà, di uomini e donne che sfidarono l’inevitabile. È un’eredità che non si limita alla pietra, ma che parla attraverso i secoli, ricordandoci che anche nelle situazioni più disperate, c’è chi trova il coraggio di resistere.

Tra storia e mito

Forse non sapremo mai con certezza se Spartaco abbia camminato su quelle pietre. Ma il solo pensiero che quell’uomo, divenuto simbolo universale di libertà e ribellione, possa aver trovato rifugio in Aspromonte, dà a quel muro un’aura speciale. Come tutte le grandi storie, anche questa mescola storia e mito, lasciando spazio all’immaginazione. E in fondo, è proprio questo che rende la storia viva: la capacità di farci sognare.



Ogni volta che ricevo uno di quei pacchi, sento l’odore della mia terra ancor prima di aprirlo. Lo riconosco subito: quello spago, annodato con una cura che sa di antico, che tiene insieme un carico di attenzioni, affetto e ricordi. Lo spago non è un dettaglio: è una firma, un gesto paterno che mio padre ripete con scrupolo e amore, come una poesia imparata da piccolo.

Lo vedo, con i suoi riccioli bianchi e quelle sopracciglia che sembrano contenere il peso di pensieri silenziosi. Si china sul pacco, mani ferme e decise, mentre tira, avvolge, annoda. È un rito. Le dita scorrono sullo spago come un artigiano che modella l’argilla, un artista che compone una melodia invisibile fatta di gesti e tensioni. Ogni nodo è un sigillo, ogni intreccio una promessa.

Dentro quei pacchi ci sono i profumi della mia infanzia: il pane che mia madre cuoce ancora nel forno antico, seguendo la ricetta delle donne di Platì; il sapore intenso dell’olio; i dolci che sanno di festa. Sono pezzi di casa, di una vita che ho lasciato, ma che mio padre sembra voler richiamare, pezzo dopo pezzo, spago dopo spago.

Mi racconta, senza bisogno di parole, che quei nodi non sono solo per tenere insieme il pacco: sono un’eredità. Mio padre li ha imparati da suo padre, mio nonno Ciccio. Mi immagino mio nonno, mulattiere come suo padre, con il viso scurito dal sole e le mani forti di chi viveva in simbiosi con la terra. Ogni volta che partiva per un viaggio, legava i carichi con la stessa meticolosità, perché quei nodi non erano solo legami materiali: erano certezze. Un carico sicuro significava proteggere ciò che aveva di più caro, il frutto del suo lavoro e del suo amore per la famiglia.

Forse mio nonno si esercitava da ragazzo, mentre osservava la natura e i suoi ritmi. Forse ogni nodo che stringeva era un modo per sentirsi in sintonia con quella terra aspra e generosa che ti chiede tanto, ma che sa ricambiare con bellezza e abbondanza.

E mio padre ha preso quel gesto e lo ha fatto suo. Lo vedo mentre piega la testa, concentrato, e il suo silenzio è pieno di cose non dette, di parole che non ha bisogno di pronunciare. Ogni nodo è una dichiarazione: “Mi prendo cura di te. Sei sempre parte di questa casa.”

Io quei nodi cerco di scioglierli con la stessa cura con cui sono stati legati. Tagliassi lo spago, sarebbe come tradire quel gesto che ha richiesto impegno e tempo, come spezzare un legame invisibile ma profondo. Non posso tagliare quella corda. Ogni nodo merita di essere sciolto con il rispetto e la pazienza con cui è stato fatto, come se sciogliendolo, stessi decifrando un messaggio, una cura che viaggia da sud a nord. Ho una scatola piena di quei fili, annodati e accartocciati, che per me non sono solo spago: sono storie, legami che viaggiano, da un padre a un figlio.

Quando apro i pacchi, il profumo del pane e delle prelibatezze fatte in casa invade la stanza. Mi fermo un attimo, chiudo gli occhi, e in quel momento non sono più nel mio appartamento del nord: sono lì, in cucina, con mia madre che impasta e mio padre che lega con la stessa precisione e dedizione con cui un tempo i mulattieri caricavano i loro animali per attraversare l’Aspromonte.

Quei nodi sono un ponte tra generazioni, tra un mondo che cambia e una tradizione che resiste. Sono un simbolo di cura, di appartenenza, di un amore che non ha bisogno di gesti plateali, ma vive nelle cose semplici. E ogni volta che ricevo uno di quei pacchi, sento che i nodi di mio padre mi tengono ancora stretto a quella terra, a quella casa, a lui.

Nella radice dell'Erica Arborea è custodita la mia anima. Quella radice, profonda e tenace, affonda nella terra aspra dell’Aspromonte, lo stesso terreno che i miei antenati hanno solcato per secoli, in silenzio e con tenacia. Mio nonno, come suo padre e suo nonno prima di lui, era mulattiere: si svegliava prima dell’alba, preparava le bisacce e si metteva in cammino, attraversando il cuore della montagna a dorso di mulo. Tra quelle bisacce, portava spesso radici d'erica, raccolte con mani esperte. Radici che, nelle mani di artigiani, si trasformavano in pipe destinate a viaggi incredibili, alcune addirittura oltre l’Oceano, fino in America, seguendo la stessa rotta degli emigranti del mio paese. Le pipe diventavano ricordi di casa, tenuti stretti dai nostri compaesani come simboli di un mondo lontano, carichi del profumo della nostra terra.

Il mio trisavolo era conosciuto come Cocciularu, soprannome che ancora oggi echeggia nella mia famiglia. "Cocciulo" è il nome dialettale di una piccola conchiglia di terra, usata per custodire i bachi da seta nella produzione della sericoltura. Il mio trisavolo commerciava queste conchiglie, portandole nei suoi viaggi con il mulo, unendo così il mondo del lavoro alla tradizione. Quel nome, Cocciularu, era un simbolo d'ingegno e di duro lavoro, un soprannome che narrava la storia di un uomo che sapeva unire le sue radici alla sua vocazione.

Il nostro sangue scorre lungo una linea ininterrotta di mulattieri. Mio nonno, fino agli anni '50, continuò a fare il mestiere di suo padre Pasquale, che a sua volta l’aveva ereditato da Francesco, generato da Antonio, a sua volta figlio di Francesco, e ancora da Rocco, Assunto e un altro Francesco, mulattieri da generazioni. Tre secoli di uomini che conoscevano il peso delle bisacce e il suono dei passi lenti del mulo sulle pietre. Essere mulattiere significava partire quando il cielo era ancora buio, affrontare nebbie fitte, neve, piogge e intemperie. Significava percorrere strade impervie, senza mai fermarsi di fronte a nulla, perché la merce doveva arrivare a destinazione.

Un tempo li chiamavano vaticali, dal latino "viaticus," viaggiatori, pellegrini delle loro giornate. In passato si servivano di carretti per il trasporto, ma poi solo del mulo, perché il mulo è duro, forte, resistente. Era il compagno fedele che poteva sopportare il freddo e la fatica; eppure, persino lui, a volte, soccombeva insieme al suo padrone sotto il peso della montagna e delle sue intemperie.

I miei antenati sono stati viaggiatori instancabili, erranti nel tempo e nello spazio di quei sentieri che li vedevano andare e tornare, sempre fedeli alla loro missione. Questo legame con il passato è viscerale, un culto che porto nel sangue. Sono pellegrino anche io, non di strade ma di memorie, e ogni passo che faccio verso la scoperta della mia storia è un omaggio a loro, agli uomini e alle donne che mi hanno preceduto e che, come radici profonde, ancora oggi mi sorreggono.

Francesco Violi di Raimondo




 

Platì, 25.02.2021 - Convegno: RADICI IN ASPROMONTE

Più che una lezione di storia, quello che io voglio fare oggi è parlare di storia ma sotto forma di racconti. Voglio offrirvi dei racconti che trovano la loro radice nell’essenza della terra come segno di appartenenza di un popolo, a una classe sociale se vogliamo, ma soprattutto come elemento distintivo della dignità dell’uomo lavoratore. Il titolo di questa giornata porta come incipit del discorso il nome di Caci il brigante o meglio Ferdinando Mittica di Platì. Prendiamo per un attimo tale figura come espressione sociale, come emblema o meglio come uno dei risvolti che scaturiscono dalle lotte legate alla terra spesso originate dai soprusi del signorotto di turno o puramente per questioni politiche. Ma partiamo soprattutto dal titolo di questa manifestazione Radici in Aspromonte. Dire radici significa andare in fondo alle cose. Io prima di essere uno storico sono archeologo di formazione e l’archeologia ha una bellissima similitudine con la vita: se vogliamo giungere al vero dobbiamo scavare. Prime delle lotte contadine del ‘900, prima della vicenda di Mittica, dobbiamo fare un salto nella Platì del 1700. Tolstoj diceva che “solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. L’agricoltura indica cos’è più e cos’è meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra.” Platì nasce da contadini, il primo cittadino del villaggio delle origini era un contadino. In uno dei registri parrocchiali, vi è un appunto che ci ha lasciato un arciprete dell’800 e cita: "Memoria: Il re Ferdinando d’Aragona nell’anno 1505 diede alla Casa "Cariati la foresta PRATI e BARBARA, e da quest'epoca in poi PLATI' riconosce la sua origine, perché i Principi di Cariati per richiamare della gente ad abitarvi concessero casa ed orto franco di censo (ossia canone)." Ecco che per il sorgere del villaggio, elemento cardine è stato proprio la terra, o meglio la possibilità di lavorare la terra e vivere del raccolto.

Premesso questo torniamo al nostro racconto: siamo a metà del 1700 e un gruppo di contadini si trova col proprio bestiame tra le foreste di Platì e dintorni. Un giorno come tanti alcuni di loro vengono presi d’assalto da un gruppo armato di bastoni e quant’altro. I primi sono cittadini di Platì e gli altri sono gli uomini al servizio del barone Francesco Coscia di Careri e visti i secoli che sono trascorsi possiamo tranquillamente menzionare nome e cognome:




Come possediamo questi nominativi? Come conosciamo questa storia? È un episodio che ai tempi ha avuto una rilevanza tale da finire davanti la regia corte ed ecco che nel 1762 vengono pubblicati tutti gli atti e la storia della vicenda. Ma qual è il punto della discussione? Perché questi cittadini di Platì si vedono attaccati dagli “armigeri” del barone Coscia? Ce lo racconta anche tale pubblicazione:




Ecco cosa succede: i cittadini di Platì ritengono che il territorio dove pascolare fosse promiscuo a quello di Careri e Natile e per le norme dell’epoca era possibile pascere i propri animali senza essere soggetti a tassazione. Ma il barone Coscia non sembra molto concorde al punto che contesta questa promiscuità territoriale raccontando che se vi è, è presente solo dal punto di vista sociale, ma forse non con Platì:



Per capire meglio la questione di questa presunta promiscuità serve fare un ulteriore salto nel passato, ed ecco che giungiamo alle origini di Platì:



Il caso è giunto a una conclusione. I cittadini di Platì da due secoli circa pascolavano in quelle terre senza subire tassazione finché, giunte in possesso della famiglia Coscia, il barone in questione pensò di lucrare maltrattando i platiesi non solo:



Quella dei soprusi del signore verso i contadini è una storia che trova le prime manifestazioni nel cuore del Medioevo quando si forma quella struttura sociale che tutti abbiamo conosciuto a scuola con il termine feudalesimo, struttura consolidatosi poi sotto uno dei sovrani più importanti del Medioevo, Carlo Magno. Ma torniamo a noi. Trovo di notevole importanza la pubblicazione di questi atti del processo per diversi fattori, come quello giuridico. Inoltre è determinante per ricostruire la storia delle origini di Platì. Pensiamo che da dall’atto di concessione del feudo alla famiglia Spinelli (1505) fino a metà 700 appunto, non vi sono pubblicazioni note che ci raccontano di Platì. Serve la terra, serve un episodio di prepotenza, di abuso del potere feudale affinché Platì trovi menzioni e riconoscimenti. Mi colpisce come, in un contesto dove il più forte fa da padrone, i contadini di Platì siano riusciti ad avere la meglio. 

Passa circa un secolo e Platì ritorna nuovamente sotto i riflettori per uno dei casi più famosi della nostra storia passata, cioè quello di Ferdinando Mittica, conosciuto come uno dei briganti più importanti del Risorgimento meridionale. Ha come soprannome caci, termine antico che significa “cattivo”, ma prima di divenire ciò che lo ha resto famoso era un “don” di Platì. Questo era un appellativo che veniva dato agli uomini di chiesa, ai nobili, ai benestanti, ai proprietari terrieri. Il Mittica, (con la C e non la G) apparteneva ad una di queste famiglie. Il nonno, di cui egli portava il nome (e quindi qui possiamo già sfatare la diceria che si chiamasse Ferdinando in omaggio al re borbonico), era stato anche sindaco di Platì. Ferdinando Mittica nasce il 23 giugno 1826 e muore a Natile, il 30 settembre 1861, dopo aver cavalcato l’onda della rivoluzione. 
Mi spiego meglio: 
lo vediamo sulla scena sin dal moto del 1848 quando viene liberato dal carcere di Ardore dove si trovava per aver ferito un uomo con un coltello. Si tratta di quell’ondata di moti rivoluzionari conosciuti anche come Primavera dei popoli, sorti inizialmente in Spagna, nel 1820, con lo scopo di opporsi ai regimi assolutisti, e che attraversano poi tutta l’Europa culminando con quelli del 1848 (diciamo ancora fare un quarantotto per sottintendere scompiglio e confusione). Ma è durante l’anno dell’Unificazione che Mittica diventa il "famigerato brigante". Personaggio che ridesta l’interessa della corte spagnola al punto da inviare il generale catalano Borjes nel tentativo di una “reconquista”. Io quest’oggi non voglio soffermarmi sulle vicende brigantesche ma sottolineare come, e qui lo riporto più come una provocazione, secondo me ai primordi del malcontento del Mittica, più che un sentimento di patriottismo liberale, vi fossero dei dissidi sul possesso di alcune terre, fra la famiglia di questi e quella dei potenti Oliva, signori per eccellenza della Platì passata. È ancora la terra a fare da scintilla reazionaria e stando alla famosa legge di Newton, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e forse questo è proprio il caso del Mittica il cui padre e i fratelli di questi, dovettero vendere, per un debito contratto del Ferdinando Mittica avo, i terreni denominati Palumbo e Margherita proprio a don Domenico Oliva figlio di Don Arcangelo. Questo avvenne nel 1828. Vi è una sentenza a mezzo della quale era stato incarcerato Ferdinando Mittica il vecchio. È in via di pubblicazione la vicenda che vede questo contrasto fra gli Oliva e i Mittica e sono autorizzato a parlarne dallo studioso Pino Macrì. Quindi è per una questione di terre e per insolvenza di un debito accumulato da parte dei Mittica che viene condannato il nonno del brigante. Questa è all’origine del contrasto. A Platì è successo quello che succedeva nel resto della Calabria laddove in quasi tutti i comuni si formavano due partiti antagonisti per interessi personali. Cioè se un partito si appoggiava a una determinata forza politica, di conseguenza l’altro partito sosteneva la forza politica avversa. La stessa cosa è successa, quasi certamente (in attesa di ulteriori sviluppi) a Platì. Pertanto c’è da domandarsi: e se gli Oliva si fossero schierati con i Borboni, i Mittica cosa avrebbero fatto? E questi sarebbe diventato il Caci che conosciamo oggi? La storia non si fa con i se ma ritengo sia fondamentale tener conto di questa vicenda e quindi ammettere che il legittimismo del Mittica non era puro e disinteressato ma era una reazione al fatto che gli Oliva avevano aderito all’Unità d’Italia. Scrive Mario La Cava nel 1986: La società del tempo era molto stabile, non consentiva facili cambiamenti di stato. Vi erano proprietari, le cui terre erano di origine feudale; e tra questi il più grande, Oliva, che aveva proprietà che da Palmi arrivavano ininterrottamente a Bovalino e a Locri, sullo Ionio. Quasi tutto il popolo, composto di contadini e di pastori, viveva delle sue terre. Famosi erano i formaggi locali che ora non si possono comprare a nessun prezzo, famoso il pane fatto in casa con una qualità di grano duro detto “dimini” di cui resta oggi solo il nome. L’olio, spremuto nei torchi a mano dalle olive nere piccoline, era leggero anche agli stomaci delicati. Vi erano i proprietari di origine borghese; e poi gli artigiani, numerosi e bravi. Il popolo era molto devoto alla Madonna di Loreto a cui è intitolata la chiesa del luogo. Certamente gli spiriti liberali non erano diffusi nemmeno tra gli esponenti più importanti delle classi civili. Garibaldi li convertì facilmente al suo passaggio; ma poi, fin dal 1861, sorsero condizioni perché i borbonici trovassero in Mittica un capo per guidare la guerriglia. A lui si unì il generale spagnolo Borjes, per raggruppare le forze della campagna anche risorgimentale, che passò alla storia come brigantaggio politico o comune. Il Mittica fu preso e ucciso; la sua testa, ficcata su una pertica, fu portata in giro per il paese.1

Per scrivere certe storie, a volte, ci vuole tempo, il tempo della distanza, il tempo della sedimentazione degli avvenimenti. Il tempo per leggere e rileggere più volte i fatti da punti di vista diversi, mettere in discussione i luoghi comuni ed illuminare con una luce nuova il buio delle chiacchiere. Serve il tempo giusto per osservare gli avvenimenti dalla giusta distanza.2

Ecco quindi un’altra storia nella storia che trova il suo stato embrionale nelle intricate questioni terriere di un piccolo paesino dell’Aspromonte.
È sempre di questo periodo quello che viene raccontato nella famosa pubblicazione di Francesco Perri, lo scrittore di Careri, cioè Emigranti, opera che gli è valso il premio Mondadori nel 1928. Perri parla per esperienza e ci narra delle lotte dei contadini pandurioti, ci dipinge un affresco grandioso del mondo contadino e pastorale dell’Aspromonte. Il romanzo trova ispirazione nelle usurpazioni delle terre demaniali, molto diffuse in Calabria dopo l’Unità d'Italia e che rappresentano un’importante pagina della storia del nostro Meridione. È necessario riportare un passaggio delle Disposizioni governative per lo stralcio delle operazioni demaniali nelle province napoletane, stampate a Napoli dalle stamperie nazionali, nel 1861. “Dopo la legge eversiva della feudalità in queste province napoletane del 2 agosto 1806, il Governo del tempo intese dare un fecondo sviluppo al principio della proprietà privata, disponendo, che si sciogliessero tutte le promiscuità di dominio e di usi, esistenti tra gli antichi feudatari, le Chiese ed i Comuni: che le parti assegnate in libera proprietà a questi ultimi fossero distribuite in quote ai cittadini più poveri di ciascun Comune, sotto la retribuzione di un annuo canone”. In realtà invece di essere distribuiti ai cittadini più poveri di ciascun Comune, quei beni, in tutta la Calabria, sono stati usurpati dalle famiglie più benestanti. Non dobbiamo dimenticare I fatti di Casignana, opera di Mario La Cava. Pubblicata per la prima volta nel 1974, narra le vicende della lotta contadina all’indomani della Grande Guerra in un paese alle pendici dell’Aspromonte, per il rispetto della legge Visocchi, secondo cui ai reduci di guerra era concesso di sfruttare i terreni incolti. A Casignana, feudo della principessa di Roccella, i contadini iniziano a bonificare la foresta Callistro ma, un mese prima della marcia su Roma, la concessione delle terre viene revocata; i contadini, guidati dal sindaco socialista Filippo Zanco, occupano pacificamente la foresta; il prefetto intima lo sgombero, le forze dell’ordine attaccano e si consuma la tragedia.

In questo excursus storico, tornando a Platì, bisogna menzionare gli anni 50 o meglio la tragica alluvione dell’ottobre del 1951 che ha causato diversi morti. È proprio l'alluvione che determina lo sconvolgimento sociale di Platì. Un inesorabile processo di emigrazione che dissangua il tessuto economico platiese e dimezza nel giro di pochi anni la popolazione che contava più di 6.000 abitanti. Come aveva ricordato il giornalista Gianni Carteri in un suo articolo del 1992, è un richiamarsi a vicenda; dall'Australia e dalle Americhe. Si abbandonano le campagne e conseguentemente i proprietari terrieri incominciano a perdere il loro potere. Furono in prima fila ad ostacolare il trasferimento dell'abitato di Platì che si voleva portare nella zona di S. Ilario dello Ionio. Si optò per il consolidamento. Con i contadini vanno via tanti bravissimi artigiani (in special modo sarti) cerniera sociale tra la borghesia terriera e la classe contadina: il vero collante insieme agli intellettuali (non pochi) della società platiese.3

Voglio concludere questa mia relazione con una citazione di dello scrittore e regista Franco Arminio: 

"Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento".


1 Mario La Cava, Corriere della Sera 19 febbraio 1986
2 Francesco Tripodi, sul blog Storia delle sette fiumare, maggio 2020
3 Gianni Carteri Testi e foto: Calabria – Anno XX – Nuova Serie - N. 83 - giugno 1992



Nella sua opera più conosciuta, Francesco Perri svela tutti quei tratti contadini di un mondo che lui custodiva dentro e a cui ha dato voce.

Era il 1928 e i racconti e la vita dei suoi padri prendevano forma dentro le pagine di Emigranti.

“La notte era tiepida ma triste, una notte di fine maggio con una falce di luna calante, che pendeva sopra Aspromonte. Il burrone s’incurvava ripido, verso la valle, poi strapiombava. Era tutto sparso di ginepri e di finocchi selvatici; a metà costa una piccola quercia era nata sul precipizio e stormiva al vento leggero. Le stelle in cielo erano rare e brillanti, in un azzurro pallido: la luna toccava la cima dell’Appennino”.

L’Aspromonte, che è stata fonte di ispirazione per Francesco Perri, è una montagna splendida, che ha un fascino particolare.

Arriva ad una altitudine di quasi 2000 metri e ha particolare geologia, che è il risultato di una evoluzione geologica e morfologica iniziata più di 500 milioni di anni fa e ancora in corso.

Il Geoparco dell’Aspromonte, diventato di recente sito Unesco, si trova lungo la catena degli Appennini, e corrisponde a un frammento della catena alpina staccatosi dalla Spagna, dall’Italia nord-orientale, dalla Sardegna e dalla Corsica. Un insieme di montagne, crinali e altopiani si alterna a valli profonde scolpite da torrenti naturali unici, chiamati “fiumare”, che nel tempo hanno modellato la dura roccia del substrato cristallino-metamorfico e creato cascate spettacolari. L’eccezionale geomorfologia del Geoparco consente una bella veduta a 360 gradi dello Stretto di Messina, del Monte Etna, delle Isole Eolie, dei territori calabresi greci, del territorio di Locri e della Piana di Gioia Tauro.

Non stupisce che il poeta Perri abbia amato sempre questi luoghi, sullo sfondo del profilo delle case del suo paese natale.


Francesco Violi


Rileggendo questa poesia con occhio critico, mi accorgo di come ogni verso rifletta una tensione intima e viscerale, un confronto tra l’anima e le radici che definiscono chi sono. Ho voluto esplorare il concetto di appartenenza, non come idea astratta ma come legame tangibile, quasi corporeo, tra la mia identità e la terra che lascio. È la pelle, infatti, a "sentire" quel contatto con la terra, a ricordarmi che le mie origini sono una parte viva e persistente di me.

Dal punto di vista stilistico, mi sono lasciato guidare dalle immagini arcaiche di pastori e contadini, elementi che per me incarnano una Calabria ancestrale, quella che mi ha cresciuto. Ogni immagine si collega non solo alla memoria personale, ma anche a una memoria collettiva, come se queste voci e queste rughe fossero parte di una storia universale.

Forse è proprio qui che si trova la forza della poesia: nel bilanciare il particolare e l’universale, nel trasformare una ferita personale in un’esperienza condivisibile, rendendo il lettore partecipe del mio strappo interiore. Scrivendo, ho cercato di portare chi legge a sentire quell’“argilla di Dio”, quella terra che accoglie e trattiene, a vivere l’attesa paziente e immutabile di chi resta.

Ogni volta quando riparto!
Ogni volta e' come se la pelle sentisse il legame con la terra,
come se si attaccasse ad essa, a mischiarsi come fango,
come l'argilla di Dio. 
Uno scontro e incontro di particelle.

La pelle alla terra e la terra l'attende
come l'attesa di una madre, come la pazienza di un padre.
Ogni volta e' come se la pelle sentisse gli antichi richiami dei pastori,
i canti dei contadini, che solo gli alberi conoscono

e il vento di tanto in tanto accompagna come voce di fantasma
fra vecchie mura di vecchie case di un vecchio paese.
Ogni volta alla partenza stralci di pelle rimangono a terra.
Quasi a segnare delle tracce per un ricordo perenne!

E negli occhi l'immagine di rughe come solchi d'aratro.
Come una foto dell'avo in divisa da soldato.
Ogni volta in terra di Calabria.
Ed un nuovo taglio sul velluto del cuore spunta a rimembranza del tutto.

Ogni volta quando riparto!
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