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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...

C’era una strana quiete sul crinale dell’Aspromonte quel giorno. L’aria era pregna del profumo di pini e di erbe selvatiche, mentre il sole si insinuava tra le vette come a cercare di svelare un segreto nascosto per secoli. E forse lo aveva trovato.

In un punto impervio, difficile da raggiungere, alcuni volontari del Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI) si imbatterono in affioramenti di pietre coperte di muschio. Quelle pietre, apparentemente ordinarie, erano in realtà tracce di una muraglia antica, estesa per oltre 2,7 km, riconducibile, con molta probabilità, al “muro di Spartaco.”

Studiando le tracce di insediamenti magnogreci e romani nel Parco dell’Aspromonte, un team di esperti formato dal professor Domenico Vespia del Gea (Gruppo Escursionisti d’Aspromonte), dal professor Franco Prampolini dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, dagli architetti Rocco Gangemi e Dina Porpiglia, e da altri ricercatori, giunse alla conclusione che il manufatto fosse antico per posizionamento, architettura e struttura, e attribuibile a un’azione militare in epoca repubblicana.

Un passato che parla

Era il 73 a.C. quando Spartaco, un gladiatore trace di straordinario carisma, fuggì dalla scuola gladiatoria di Capua insieme a circa 70 compagni, tra cui i suoi principali luogotenenti, Crixo e Enomao. La loro rivolta si trasformò presto in una guerra su vasta scala, attirando migliaia di schiavi in cerca di libertà. Spartaco, leader abile e stratega, fu in grado di infliggere numerose sconfitte all’esercito romano, sfruttando il terreno accidentato e la mancanza di coesione tra i suoi nemici.

Il Senato romano, inizialmente sottovalutando la ribellione, inviò comandanti di basso rango come Gaio Claudio Glabro, che subì una disastrosa sconfitta. Solo quando la ribellione assunse proporzioni enormi, Roma incaricò Marco Licinio Crasso, un ricco e spietato generale, di sopprimere la rivolta. Crasso, sostenuto dalla disciplina e dalla brutalità delle sue legioni, impiegò tattiche spietate, come la decimazione, per ristabilire il controllo e fermare l’avanzata dei ribelli.

Nonostante il genio strategico di Spartaco, la divisione interna tra i ribelli, con Crixo che guidò un gruppo separato di Galli e Germani verso una rovinosa sconfitta, indebolì le forze insurrezionali. La battaglia finale avvenne nel 71 a.C., nei pressi del fiume Silaro. Spartaco morì combattendo, e i suoi seguaci furono massacrati o crocifissi lungo la Via Appia, un monito cruento alla ribellione.

L’archeologia della resistenza

Il ritrovamento è stato anche al centro di un convegno a Cittanova, dove sono intervenuti il professor Paolo Visonà, docente di fama internazionale all’Università del Kentucky, il professor George M. Crothers, antropologo e geofisico, Margo T. Crothers, e James R. Jansson, fondatore della Foundation for Calabrian Archaeology. Attraverso sopralluoghi e studi interdisciplinari, il team ha contribuito a confermare la rilevanza storica e culturale del muro.

Un’eredità dimenticata

L’Aspromonte, così remoto e misterioso, è stato spesso teatro di storie dimenticate. Questo muro, che potrebbe appartenere alla ribellione di Spartaco, ci invita a riflettere su un passato fatto di lotte per la libertà, di uomini e donne che sfidarono l’inevitabile. È un’eredità che non si limita alla pietra, ma che parla attraverso i secoli, ricordandoci che anche nelle situazioni più disperate, c’è chi trova il coraggio di resistere.

Tra storia e mito

Forse non sapremo mai con certezza se Spartaco abbia camminato su quelle pietre. Ma il solo pensiero che quell’uomo, divenuto simbolo universale di libertà e ribellione, possa aver trovato rifugio in Aspromonte, dà a quel muro un’aura speciale. Come tutte le grandi storie, anche questa mescola storia e mito, lasciando spazio all’immaginazione. E in fondo, è proprio questo che rende la storia viva: la capacità di farci sognare.



Cosa significa “scoprire”? Non è solo il rimuovere un velo, come suggerisce l’etimologia del termine dal latino dis-cooperire. Scoprire è un atto profondamente umano, un impulso ancestrale che ci guida oltre l’orizzonte, spingendoci verso ciò che ancora non conosciamo. È una forza che attraversa i secoli e le culture, plasmando il nostro essere, lasciando tracce indelebili nella storia, nella letteratura e nell’archeologia.

Il bisogno primordiale di scoprire

Immaginiamo i primi uomini che, due milioni di anni fa, uscivano dalle caverne per esplorare il mondo circostante. Non era solo una necessità legata alla sopravvivenza. L’atto di scoprire una nuova fonte d’acqua, una grotta o una pianta commestibile era già un atto di connessione con l’ambiente, un primo abbozzo di comprensione del mondo. Lo stesso spirito guidò i nostri antenati nel creare mappe mentali, strumenti di pietra e, infine, linguaggi simbolici.

L’archeologia ci restituisce queste prime scoperte. Pensiamo alle pitture rupestri di Lascaux, in Francia: non solo rappresentazioni di animali, ma una scoperta simbolica di sé stessi attraverso l’arte. In quelle grotte buie, illuminate da fiaccole tremolanti, nasceva la consapevolezza di appartenere a qualcosa di più grande, di poter interpretare e raccontare il mondo.

Scoprire il mondo e l’altro: Ulisse e le radici letterarie

Il desiderio di scoprire non è mai stato un viaggio solitario. È sempre intrecciato alla ricerca dell’altro, di ciò che ci definisce attraverso il confronto. Nessuna figura incarna meglio questa tensione dell’animo umano di Ulisse, il polytropos dell’Odissea. La sua sete di conoscenza lo spinge a oltrepassare i limiti del conosciuto, fino a trovarsi di fronte al mistero dell’ignoto.

Quando Ulisse incontra Polifemo, la sua astuzia non è solo sopravvivenza: è scoperta di sé, del potere del linguaggio e dell’identità. “Nessuno mi chiamo,” dice al ciclope, giocando con la nozione di essere e non essere. È un momento letterario potente, che riflette la complessità della scoperta: un misto di paura, ingegno e curiosità.

Il Rinascimento: l’età delle scoperte

Saltiamo di secoli. È il 1492, e Cristoforo Colombo, spinto dai venti atlantici, approda su una nuova terra. Non è solo un atto geografico, ma un cambiamento epocale nella visione del mondo. L’archeologia ci restituisce frammenti di quel primo contatto: i manufatti mesoamericani trovati nei siti conquistati, i racconti degli indios raccolti dai cronisti.

La scoperta delle Americhe è anche una scoperta dell’altro, ma non priva di contraddizioni. Se da un lato essa aprì nuove vie commerciali e culturali, dall’altro segnò l’inizio di una tragica stagione di colonialismo e sfruttamento. È qui che la letteratura si fa specchio della storia. Pensiamo al Mundus Novus di Amerigo Vespucci, che descrive con stupore il “nuovo mondo,” o alla critica di Bartolomé de Las Casas, che ci invita a riflettere sull’etica della scoperta e sulle sue conseguenze.

L’illuminismo e l’archeologia: la scoperta del passato

Alla fine del Settecento, l’impulso di scoprire si spostò nel tempo oltre che nello spazio. L’archeologia moderna nacque con la scoperta di Pompei ed Ercolano, sepolte per secoli sotto le ceneri del Vesuvio. Ogni scavo era come aprire un libro di storia dimenticato. I mosaici, le strade, le domus: tutto parlava di una civiltà scomparsa, ma ancora viva nelle sue tracce.

Scoprire il passato era scoprire sé stessi. Johann Joachim Winckelmann, considerato il padre dell’archeologia, vide nell’arte greca e romana il modello ideale di bellezza e perfezione. Le sue teorie ispirarono non solo studiosi, ma anche artisti e poeti, come Goethe, che nelle sue Elegie romane celebrò la fusione di arte, storia e natura.

Il Novecento e la scoperta interiore

Nel Novecento, scoprire divenne anche un atto introspettivo. Freud, scavando nell’inconscio umano come un archeologo della mente, mostrò che ogni individuo porta dentro di sé strati di storia personale e collettiva. Anche la letteratura seguì questa direzione. Pensiamo a Marcel Proust, che nella sua Recherche trasforma la memoria in un atto di scoperta.

Contemporaneamente, la scoperta continuava sul piano storico e archeologico. Nel 1922, Howard Carter portò alla luce la tomba di Tutankhamon, rivelando un mondo di bellezza e mistero. Ogni oggetto, dal sarcofago dorato agli strumenti quotidiani, raccontava una storia. Ma forse la scoperta più grande fu quella di capire quanto poco sappiamo del passato e quanto ancora ci sia da scoprire.

Il futuro della scoperta

Oggi, la scoperta si muove verso nuove frontiere: lo spazio, l’intelligenza artificiale, gli oceani inesplorati. Ma il senso intrinseco rimane lo stesso: scoprire è conoscere per comprendere, per entrare in relazione. È un atto che ci rende umani, un filo che lega Ulisse, Colombo, Winckelmann, Carter e noi stessi.

Una chiusa narrativa

Immaginiamo un uomo o una donna, seduti davanti a una mappa, una pagina bianca o un computer. In quel momento, essi non vedono solo ciò che hanno davanti. Vedono possibilità, storie da raccontare, mondi da esplorare. Scoprire non è mai solo scoprire l’altro. È scoprire sé stessi, in un eterno viaggio senza fine.

Francesco Violi
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