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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...



Ogni volta che ricevo uno di quei pacchi, sento l’odore della mia terra ancor prima di aprirlo. Lo riconosco subito: quello spago, annodato con una cura che sa di antico, che tiene insieme un carico di attenzioni, affetto e ricordi. Lo spago non è un dettaglio: è una firma, un gesto paterno che mio padre ripete con scrupolo e amore, come una poesia imparata da piccolo.

Lo vedo, con i suoi riccioli bianchi e quelle sopracciglia che sembrano contenere il peso di pensieri silenziosi. Si china sul pacco, mani ferme e decise, mentre tira, avvolge, annoda. È un rito. Le dita scorrono sullo spago come un artigiano che modella l’argilla, un artista che compone una melodia invisibile fatta di gesti e tensioni. Ogni nodo è un sigillo, ogni intreccio una promessa.

Dentro quei pacchi ci sono i profumi della mia infanzia: il pane che mia madre cuoce ancora nel forno antico, seguendo la ricetta delle donne di Platì; il sapore intenso dell’olio; i dolci che sanno di festa. Sono pezzi di casa, di una vita che ho lasciato, ma che mio padre sembra voler richiamare, pezzo dopo pezzo, spago dopo spago.

Mi racconta, senza bisogno di parole, che quei nodi non sono solo per tenere insieme il pacco: sono un’eredità. Mio padre li ha imparati da suo padre, mio nonno Ciccio. Mi immagino mio nonno, mulattiere come suo padre, con il viso scurito dal sole e le mani forti di chi viveva in simbiosi con la terra. Ogni volta che partiva per un viaggio, legava i carichi con la stessa meticolosità, perché quei nodi non erano solo legami materiali: erano certezze. Un carico sicuro significava proteggere ciò che aveva di più caro, il frutto del suo lavoro e del suo amore per la famiglia.

Forse mio nonno si esercitava da ragazzo, mentre osservava la natura e i suoi ritmi. Forse ogni nodo che stringeva era un modo per sentirsi in sintonia con quella terra aspra e generosa che ti chiede tanto, ma che sa ricambiare con bellezza e abbondanza.

E mio padre ha preso quel gesto e lo ha fatto suo. Lo vedo mentre piega la testa, concentrato, e il suo silenzio è pieno di cose non dette, di parole che non ha bisogno di pronunciare. Ogni nodo è una dichiarazione: “Mi prendo cura di te. Sei sempre parte di questa casa.”

Io quei nodi cerco di scioglierli con la stessa cura con cui sono stati legati. Tagliassi lo spago, sarebbe come tradire quel gesto che ha richiesto impegno e tempo, come spezzare un legame invisibile ma profondo. Non posso tagliare quella corda. Ogni nodo merita di essere sciolto con il rispetto e la pazienza con cui è stato fatto, come se sciogliendolo, stessi decifrando un messaggio, una cura che viaggia da sud a nord. Ho una scatola piena di quei fili, annodati e accartocciati, che per me non sono solo spago: sono storie, legami che viaggiano, da un padre a un figlio.

Quando apro i pacchi, il profumo del pane e delle prelibatezze fatte in casa invade la stanza. Mi fermo un attimo, chiudo gli occhi, e in quel momento non sono più nel mio appartamento del nord: sono lì, in cucina, con mia madre che impasta e mio padre che lega con la stessa precisione e dedizione con cui un tempo i mulattieri caricavano i loro animali per attraversare l’Aspromonte.

Quei nodi sono un ponte tra generazioni, tra un mondo che cambia e una tradizione che resiste. Sono un simbolo di cura, di appartenenza, di un amore che non ha bisogno di gesti plateali, ma vive nelle cose semplici. E ogni volta che ricevo uno di quei pacchi, sento che i nodi di mio padre mi tengono ancora stretto a quella terra, a quella casa, a lui.

 


Intanto bisogna precisare che l’originale anglosassone è political correctness, cioè “correttezza politica” e non “politicamente corretto”, quindi a priori si parte male e forse ora si sta esagerando. Questa estrema attenzione degli aspetti formali sta diventando estremismo. Sta succedendo come con la parola democrazia. Se ne abusa a tal punto che in nome della democrazia e della libertà di parola io posso scrivere il caxxo che mi pare. Vero? Io ne ho le balls piene di questi pregiudizi liberal-moralisti dove concetti linguistici vengono sostituiti con nuovi idiomi che, finalmente, tutelano tutto e tutti. Non fraintendetemi, decliniamo pure i ruoli al femminile, giusto, e sappiamo tutti che si usa dire "fratelli" raggruppando fratelli e sorelle. Il latino frater indica ciascuno dei figli nati dagli stessi genitori. È un senso collettivo della nostra grammatica che non vuole essere assolutamente sessista. Ma cosa c'entrano adesso Dumbo, gli Aristogatti e Peter Pan? Dai perché ogni convenzione consolidata deve per forza rappresentare un possibile attacco a qualche individuo?  

Dumbo (1941), Peter Pan (1953) e gli Aristogatti (1953) io continuerò a farli guardare ai miei figli anche se non hanno ancora compiuto i 7 anni, il nuovo limite di età che concede loro la visione ma sempre in presenza di un adulto (è il momento in cui la sala tv diventa zona arancione). Per quanto riguarda l'elefantino più famoso al mondo il problema è nel canto degli afroamericani che lavorano nelle piantagioni, Peter Pan chiami gli indiani pellerossa mentre fra le avventure di Duchessa e dei suoi micini spunta il siamese Shun Gon, troppo caricaturizzato con i suoi occhi a mandorla e le bacchettine. Ma scusate! allora è stato scordato Romeo che canta "Ma pure da emigrato, Mica so’ cambiato. Io so’ Romeo, Er mejo del Colosseo" Non pensate che in questo caso (siamo nel '53) qui vi è un'allusione agli emigranti italiani, forse latin lover ma comunque sia un pò girovaghi? 

E Semola? Ragazzino mingherlino e maltrattato. Cosa dobbiamo dire? E perché Robin Hood è impersonato da una volpe? Fossi un animalista denuncerei la Disney. Gli altri animali sono meno furbi del quadrupede che scaglie le frecce? Che ne direbbe Esopo?

Sapete qual è il punto? Non bendare i bambini o non permettere loro di vedere questi bellissimi cartoni animati ma accompagnarli in questo, attendere il momento in cui ci chiederanno ma perché Peter Pan li chiama pellerossa? Perché sono di colore quelli che raccolgono il cotone? E perché il siamese è disegnato così? Allora sarò io genitore a raccontare loro delle storie che narrano di identità e razze (posso ancora scrivere questa parola?), di pregiudizi e modi di dire, senza togliere la verità alla storia e alle identità ma raccontando come sono andate le cose, parlando dei diversamente abili, dei neri, degli ebrei, dei gay, insegnando quali espressioni verbali usare, definendoli con criterio, se è necessario, non perché di gusti e orientamenti sessuali diversi, o di colore della pelle diverso, ma perché uomini (si qui intendo anche le donne) e affinché non si creino delle idee e dei giudizi sbagliati. Noi genitori (e qui non intendo solo chi "genera" - non si sa mai!) siamo in grado di educare vero? educĕre -"trar fuori" il loro pensiero e, passo dopo passo, tener vivo il senso critico di fronte al reale (come dovrebbe fare un bravo insegnante).

Questo revisionismo storico lo trovo eccessivo e fuorviante. Anzi odio proprio questo moralismo! (non saprei come altro definirlo)

E aggiungo una cosa: Sloth (I Goonies - 1985) indossa la maglietta con la S di Superman!


Rileggendo questa poesia con occhio critico, mi accorgo di come ogni verso rifletta una tensione intima e viscerale, un confronto tra l’anima e le radici che definiscono chi sono. Ho voluto esplorare il concetto di appartenenza, non come idea astratta ma come legame tangibile, quasi corporeo, tra la mia identità e la terra che lascio. È la pelle, infatti, a "sentire" quel contatto con la terra, a ricordarmi che le mie origini sono una parte viva e persistente di me.

Dal punto di vista stilistico, mi sono lasciato guidare dalle immagini arcaiche di pastori e contadini, elementi che per me incarnano una Calabria ancestrale, quella che mi ha cresciuto. Ogni immagine si collega non solo alla memoria personale, ma anche a una memoria collettiva, come se queste voci e queste rughe fossero parte di una storia universale.

Forse è proprio qui che si trova la forza della poesia: nel bilanciare il particolare e l’universale, nel trasformare una ferita personale in un’esperienza condivisibile, rendendo il lettore partecipe del mio strappo interiore. Scrivendo, ho cercato di portare chi legge a sentire quell’“argilla di Dio”, quella terra che accoglie e trattiene, a vivere l’attesa paziente e immutabile di chi resta.

Ogni volta quando riparto!
Ogni volta e' come se la pelle sentisse il legame con la terra,
come se si attaccasse ad essa, a mischiarsi come fango,
come l'argilla di Dio. 
Uno scontro e incontro di particelle.

La pelle alla terra e la terra l'attende
come l'attesa di una madre, come la pazienza di un padre.
Ogni volta e' come se la pelle sentisse gli antichi richiami dei pastori,
i canti dei contadini, che solo gli alberi conoscono

e il vento di tanto in tanto accompagna come voce di fantasma
fra vecchie mura di vecchie case di un vecchio paese.
Ogni volta alla partenza stralci di pelle rimangono a terra.
Quasi a segnare delle tracce per un ricordo perenne!

E negli occhi l'immagine di rughe come solchi d'aratro.
Come una foto dell'avo in divisa da soldato.
Ogni volta in terra di Calabria.
Ed un nuovo taglio sul velluto del cuore spunta a rimembranza del tutto.

Ogni volta quando riparto!
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