Nella radice dell'Erica Arborea è custodita la mia anima. Quella radice, profonda e tenace, affonda nella terra aspra dell’Aspromonte, lo stesso terreno che i miei antenati hanno solcato per secoli, in silenzio e con tenacia. Mio nonno, come suo padre e suo nonno prima di lui, era mulattiere: si svegliava prima dell’alba, preparava le bisacce e si metteva in cammino, attraversando il cuore della montagna a dorso di mulo. Tra quelle bisacce, portava spesso radici d'erica, raccolte con mani esperte. Radici che, nelle mani di artigiani, si trasformavano in pipe destinate a viaggi incredibili, alcune addirittura oltre l’Oceano, fino in America, seguendo la stessa rotta degli emigranti del mio paese. Le pipe diventavano ricordi di casa, tenuti stretti dai nostri compaesani come simboli di un mondo lontano, carichi del profumo della nostra terra.
Il mio trisavolo era conosciuto come Cocciularu, soprannome che ancora oggi echeggia nella mia famiglia. "Cocciulo" è il nome dialettale di una piccola conchiglia di terra, usata per custodire i bachi da seta nella produzione della sericoltura. Il mio trisavolo commerciava queste conchiglie, portandole nei suoi viaggi con il mulo, unendo così il mondo del lavoro alla tradizione. Quel nome, Cocciularu, era un simbolo d'ingegno e di duro lavoro, un soprannome che narrava la storia di un uomo che sapeva unire le sue radici alla sua vocazione.
Il nostro sangue scorre lungo una linea ininterrotta di mulattieri. Mio nonno, fino agli anni '50, continuò a fare il mestiere di suo padre Pasquale, che a sua volta l’aveva ereditato da Francesco, generato da Antonio, a sua volta figlio di Francesco, e ancora da Rocco, Assunto e un altro Francesco, mulattieri da generazioni. Tre secoli di uomini che conoscevano il peso delle bisacce e il suono dei passi lenti del mulo sulle pietre. Essere mulattiere significava partire quando il cielo era ancora buio, affrontare nebbie fitte, neve, piogge e intemperie. Significava percorrere strade impervie, senza mai fermarsi di fronte a nulla, perché la merce doveva arrivare a destinazione.
Un tempo li chiamavano vaticali, dal latino "viaticus," viaggiatori, pellegrini delle loro giornate. In passato si servivano di carretti per il trasporto, ma poi solo del mulo, perché il mulo è duro, forte, resistente. Era il compagno fedele che poteva sopportare il freddo e la fatica; eppure, persino lui, a volte, soccombeva insieme al suo padrone sotto il peso della montagna e delle sue intemperie.
I miei antenati sono stati viaggiatori instancabili, erranti nel tempo e nello spazio di quei sentieri che li vedevano andare e tornare, sempre fedeli alla loro missione. Questo legame con il passato è viscerale, un culto che porto nel sangue. Sono pellegrino anche io, non di strade ma di memorie, e ogni passo che faccio verso la scoperta della mia storia è un omaggio a loro, agli uomini e alle donne che mi hanno preceduto e che, come radici profonde, ancora oggi mi sorreggono.
Francesco Violi di Raimondo