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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio


Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futuro, diventa una società chiusa, rattrappita, che perde la sua forza.
Se non sappiamo da dove veniamo, come possiamo capire dove vogliamo andare?

Pensateci, pensiamoci: ogni pagina di storia nei nostri libri di scuola non è solo una lezione, ma un pezzo della grande avventura dell'umanità.
E avere la fortuna di incontrare un insegnante che sappia raccontare quella storia con passione è come avere una mappa preziosa tra le mani: ti aiuta a orientarti nella vita.

Ma perché è davvero così importante studiare la storia?
Perché, come ci ricordano due grandi storici – Jacques Le Goff e Marc Bloch – la storia non è fatta solo di eventi e di date, ma di domande e di spiegazioni.
Per Le Goff, la storia non è un semplice elenco di fatti, ma un tempo continuo che l’uomo cerca di ordinare e di capire. È un mosaico di continuità e rotture, un grande racconto che serve a leggere il passato per dare un senso al presente e a custodire la memoria collettiva di chi siamo.

Marc Bloch, invece, diceva che fare storia è come cacciare: lo storico è un cacciatore di tracce e di segreti, un artigiano che deve saper fare le giuste domande per trasformare le fonti in risposte vive. La storia, diceva, non è una scienza del passato, ma una scienza del cambiamento.
Studiare la storia, per Bloch, vuol dire imparare a guardare il mondo con occhi nuovi, con la curiosità di chi sa che ogni società è un intreccio di uomini, sogni e battaglie, e che niente resta fermo.

Ecco perché imparare la storia ci rende più liberi: perché ci insegna a pensare, a capire che anche noi possiamo lasciare un segno, proprio come chi ci ha preceduto.

Perché se ci pensate, una società prigioniera del presente non progetta futuro e non ha memoria del passato.
Cova rancori e paure, riuscendo solo ad adattarsi: al desiderio sostituisce le pulsioni, al progetto l’annuncio, alle passioni le emozioni. Diventa una società rattrappita.
E questa schiavitù del presente ha portato perfino a un mutamento antropologico dell’uomo occidentale: nella vita privata, nella sfera dei sentimenti e delle relazioni, nella dimensione pubblica – dalla politica all’economia, dalle istituzioni alle imprese.
Il presentismo celebra il primato della tecnologia che domina e ci domina, della finanza senza redistribuzione della ricchezza.
Assembla il virtuale in un’eterna connessione e rende opaco il reale, fino a farlo sfumare.
Lascia senza risposte le due grandi domande del mondo globalizzato: la sicurezza e la possibilità di crescere nel benessere.

Ma da questa prigione si può uscire, se partiamo dalla consapevolezza di quanto siamo ormai scollegati dal passato e dal futuro.
E come diceva Albert Camus: «Il senso della vita è resistere all’aria del tempo.»
Studiare la storia ci aiuta proprio a resistere, a non essere trascinati dal vento che cambia ogni giorno.
A dirci, come ripeteva Marc Bloch, che la storia non è un lusso, ma una fame di sapere, un bisogno profondo di umanità.

Fonti
  • Jacques Le Goff, Il tempo continuo della storia. Laterza, 2014.
  • Jacques Le Goff, La memoria. In Storia e memoria, Einaudi, 1982.
  • Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico. Einaudi, 1949.
  • Giuseppe De Rita, Antonio Galdo, Prigionieri del presente. Come uscire dalla società senza memoria e senza futuro. Feltrinelli, 2019.

C’era una strana quiete sul crinale dell’Aspromonte quel giorno. L’aria era pregna del profumo di pini e di erbe selvatiche, mentre il sole si insinuava tra le vette come a cercare di svelare un segreto nascosto per secoli. E forse lo aveva trovato.

In un punto impervio, difficile da raggiungere, alcuni volontari del Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI) si imbatterono in affioramenti di pietre coperte di muschio. Quelle pietre, apparentemente ordinarie, erano in realtà tracce di una muraglia antica, estesa per oltre 2,7 km, riconducibile, con molta probabilità, al “muro di Spartaco.”

Studiando le tracce di insediamenti magnogreci e romani nel Parco dell’Aspromonte, un team di esperti formato dal professor Domenico Vespia del Gea (Gruppo Escursionisti d’Aspromonte), dal professor Franco Prampolini dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, dagli architetti Rocco Gangemi e Dina Porpiglia, e da altri ricercatori, giunse alla conclusione che il manufatto fosse antico per posizionamento, architettura e struttura, e attribuibile a un’azione militare in epoca repubblicana.

Un passato che parla

Era il 73 a.C. quando Spartaco, un gladiatore trace di straordinario carisma, fuggì dalla scuola gladiatoria di Capua insieme a circa 70 compagni, tra cui i suoi principali luogotenenti, Crixo e Enomao. La loro rivolta si trasformò presto in una guerra su vasta scala, attirando migliaia di schiavi in cerca di libertà. Spartaco, leader abile e stratega, fu in grado di infliggere numerose sconfitte all’esercito romano, sfruttando il terreno accidentato e la mancanza di coesione tra i suoi nemici.

Il Senato romano, inizialmente sottovalutando la ribellione, inviò comandanti di basso rango come Gaio Claudio Glabro, che subì una disastrosa sconfitta. Solo quando la ribellione assunse proporzioni enormi, Roma incaricò Marco Licinio Crasso, un ricco e spietato generale, di sopprimere la rivolta. Crasso, sostenuto dalla disciplina e dalla brutalità delle sue legioni, impiegò tattiche spietate, come la decimazione, per ristabilire il controllo e fermare l’avanzata dei ribelli.

Nonostante il genio strategico di Spartaco, la divisione interna tra i ribelli, con Crixo che guidò un gruppo separato di Galli e Germani verso una rovinosa sconfitta, indebolì le forze insurrezionali. La battaglia finale avvenne nel 71 a.C., nei pressi del fiume Silaro. Spartaco morì combattendo, e i suoi seguaci furono massacrati o crocifissi lungo la Via Appia, un monito cruento alla ribellione.

L’archeologia della resistenza

Il ritrovamento è stato anche al centro di un convegno a Cittanova, dove sono intervenuti il professor Paolo Visonà, docente di fama internazionale all’Università del Kentucky, il professor George M. Crothers, antropologo e geofisico, Margo T. Crothers, e James R. Jansson, fondatore della Foundation for Calabrian Archaeology. Attraverso sopralluoghi e studi interdisciplinari, il team ha contribuito a confermare la rilevanza storica e culturale del muro.

Un’eredità dimenticata

L’Aspromonte, così remoto e misterioso, è stato spesso teatro di storie dimenticate. Questo muro, che potrebbe appartenere alla ribellione di Spartaco, ci invita a riflettere su un passato fatto di lotte per la libertà, di uomini e donne che sfidarono l’inevitabile. È un’eredità che non si limita alla pietra, ma che parla attraverso i secoli, ricordandoci che anche nelle situazioni più disperate, c’è chi trova il coraggio di resistere.

Tra storia e mito

Forse non sapremo mai con certezza se Spartaco abbia camminato su quelle pietre. Ma il solo pensiero che quell’uomo, divenuto simbolo universale di libertà e ribellione, possa aver trovato rifugio in Aspromonte, dà a quel muro un’aura speciale. Come tutte le grandi storie, anche questa mescola storia e mito, lasciando spazio all’immaginazione. E in fondo, è proprio questo che rende la storia viva: la capacità di farci sognare.

Nel 2019, una ricerca condotta da Luigi Vigliotti, dell’Istituto di scienze marine del CNR-ISMAR di Bologna, in collaborazione con Jim Channell dell’Università della Florida, ha proposto una spiegazione rivoluzionaria per uno dei più grandi misteri della preistoria: l'estinzione dell’uomo di Neanderthal. Pubblicata sulla rivista Reviews of Geophysics, questa scoperta offre una nuova chiave di lettura per comprendere la scomparsa di una specie che abitò l’Europa per circa 160.000 anni.

Un mistero millenario

La scomparsa dei Neanderthal, avvenuta circa 40.000 anni fa, è stata a lungo oggetto di dibattito. Le teorie spaziano dall’inferiorità tecnologica rispetto ai Sapiens alla competizione per le risorse, fino a possibili incroci genetici. Tuttavia, nessuna di queste ipotesi ha mai trovato un consenso unanime. La ricerca italiana, invece, punta il dito contro un evento cosmico: il crollo del campo magnetico terrestre.

La scienza dietro l’ipotesi

Il campo magnetico terrestre, uno scudo naturale contro i raggi ultravioletti (UV), subì un indebolimento significativo proprio 40.000 anni fa. Questo fenomeno, secondo i ricercatori, avrebbe esposto i Neanderthal a livelli pericolosi di radiazioni UV. La chiave di questa vulnerabilità risiederebbe in una variante del gene AhR, particolarmente sensibile alle radiazioni. Questa combinazione genetica, unica nei Neanderthal, potrebbe averli resi incapaci di adattarsi a un ambiente divenuto improvvisamente ostile.

Un nuovo tassello nella storia dell’umanità

Questa scoperta non solo arricchisce il dibattito scientifico, ma solleva domande affascinanti sul rapporto tra genetica, ambiente e sopravvivenza. Se da un lato ci ricorda la fragilità della vita di fronte ai cambiamenti ambientali, dall’altro ci invita a riflettere sull’importanza della ricerca interdisciplinare, che ha permesso a scienziati italiani e americani di collegare biologia, genetica e geofisica in una narrazione coerente.

Questa storia ci insegna che la scienza non è solo un viaggio verso il futuro, ma anche uno sguardo attento al passato. L’estinzione dei Neanderthal non è solo un mistero da risolvere, ma un monito sulla nostra vulnerabilità di fronte ai cambiamenti ambientali. Come i Neanderthal, anche noi dipendiamo da delicati equilibri che potrebbero essere infranti da eventi fuori dal nostro controllo.

                                                                                                                                             Francesco Violi

Nell’Italia meridionale del VI secolo, un tempo di profonde trasformazioni, nacque una figura straordinaria: Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (485-580 d.C.). In una Calabria sospesa tra il passato imperiale di Roma e il nuovo ordine gotico, Cassiodoro crebbe con una missione che forse allora nemmeno immaginava: preservare la conoscenza in un’epoca di transizione.

Un uomo tra politica e cultura

Figlio di una famiglia nobile e influente, Cassiodoro era destinato alla carriera politica. Servì alla corte di re Teodorico il Grande, il sovrano goto che cercava di stabilire un fragile equilibrio tra la cultura romana e le tradizioni germaniche. Nel ruolo di magister officiorum (una sorta di primo ministro), Cassiodoro si occupò di amministrazione, diplomazia e della stesura di testi ufficiali. Scrisse le Variae, una raccolta di lettere e documenti di stato che rappresentano una fonte storica unica sull’Italia del VI secolo.

Nel 540, con la morte di Teodorico e il declino del regno ostrogoto, Cassiodoro assistette al caos delle guerre gotiche tra Goti e Bizantini. Di fronte alla violenza e alla disgregazione, decise di lasciare la politica per dedicarsi interamente alla cultura e alla spiritualità.


Il Vivarium: un monastero-laboratorio

Cassiodoro tornò nella sua terra natale, in Calabria, dove fondò il Vivarium, un monastero innovativo situato nei pressi dell’odierna Squillace. Non era un monastero comune: oltre alla preghiera, i monaci erano impegnati nella trascrizione di manoscritti, salvando opere classiche e cristiane dalla distruzione. In un’epoca in cui il sapere rischiava di perdersi, il Vivarium divenne un faro di conoscenza.

La struttura del monastero si fondeva con l’ambiente naturale: i giardini ospitavano piante medicinali e alberi da frutto, simboli della rinascita spirituale e culturale. Cassiodoro stesso sottolineò l’importanza di osservare la natura come riflesso della perfezione divina. Ancora oggi, scavi archeologici nella zona di Squillace hanno rivelato resti di edifici che potrebbero essere collegati al Vivarium, anche se molto del sito rimane da esplorare.


Opere e pensiero

Cassiodoro scrisse alcune delle opere più influenti del suo tempo, tra cui:

  • De Anima: un trattato filosofico sulla natura dell’anima, che cerca di armonizzare la fede cristiana con la filosofia greca.

  • De Institutione Divinarum Litterarum: un manuale per i monaci, che li guidava nello studio della Bibbia e nel recupero dei testi classici.

  • Historia Tripartita: una raccolta di storie ecclesiastiche che divenne un testo fondamentale per i monaci medievali.

La sua visione era chiara: fede e ragione dovevano essere integrate, perché tutta la conoscenza, sia sacra che profana, era considerata dono di Dio.


La terra di Cassiodoro

Cassiodoro era profondamente legato alla sua terra. La Calabria del VI secolo era una regione aspra e luminosa, stretta tra le montagne e il mare. Gli antichi resti della Scolacium romana, vicini al luogo del Vivarium, ricordano le radici classiche della regione. Ancora oggi, il parco archeologico di Scolacium offre testimonianze straordinarie, come il foro, il teatro romano e i resti di una basilica paleocristiana che raccontano la fusione tra le culture pagana e cristiana.

Cassiodoro considerava la Calabria non solo una casa, ma un simbolo: una "terra di mezzo" tra culture, civiltà e tempi storici. In questo paesaggio, le onde del mare Ionio sembravano portare non solo commerci, ma anche idee e tradizioni.


Un’eredità immortale

Cassiodoro fu un uomo che abbracciò il suo tempo senza esserne schiavo. Fu un mediatore tra mondi: quello romano ormai in declino e quello cristiano in ascesa; quello gotico, che aveva cercato di stabilire un equilibrio, e quello bizantino, che avrebbe dominato l’Italia meridionale per secoli.

Nonostante le sfide, Cassiodoro vide nella conoscenza una via di salvezza. Ogni manoscritto copiato al Vivarium era un atto di resistenza culturale. Grazie al suo lavoro, testi di Platone, Aristotele, Cicerone e molti altri arrivarono al medioevo, contribuendo a costruire le basi del Rinascimento.

Si dice che negli ultimi anni della sua vita, forse tra il 575 e il 580 d.C., Cassiodoro si ritirò completamente a vita monastica, dedicandosi alla meditazione e alla scrittura. Anche se il Vivarium si spense nei secoli successivi, la sua visione sopravvive. Oggi, il suo nome è un simbolo di dialogo tra passato e futuro, di un sapere che non conosce confini.


Cassiodoro oggi

Visitare la Calabria significa ripercorrere le tracce di Cassiodoro. Dai resti di Scolacium ai paesaggi incontaminati che ispirarono la sua opera, ogni angolo racconta una storia. La sua figura rimane un esempio di come la cultura possa unire, illuminare e resistere, anche nei tempi più oscuri.

                                                                                                                                              Francesco Violi

Nella radice dell'Erica Arborea è custodita la mia anima. Quella radice, profonda e tenace, affonda nella terra aspra dell’Aspromonte, lo stesso terreno che i miei antenati hanno solcato per secoli, in silenzio e con tenacia. Mio nonno, come suo padre e suo nonno prima di lui, era mulattiere: si svegliava prima dell’alba, preparava le bisacce e si metteva in cammino, attraversando il cuore della montagna a dorso di mulo. Tra quelle bisacce, portava spesso radici d'erica, raccolte con mani esperte. Radici che, nelle mani di artigiani, si trasformavano in pipe destinate a viaggi incredibili, alcune addirittura oltre l’Oceano, fino in America, seguendo la stessa rotta degli emigranti del mio paese. Le pipe diventavano ricordi di casa, tenuti stretti dai nostri compaesani come simboli di un mondo lontano, carichi del profumo della nostra terra.

Il mio trisavolo era conosciuto come Cocciularu, soprannome che ancora oggi echeggia nella mia famiglia. "Cocciulo" è il nome dialettale di una piccola conchiglia di terra, usata per custodire i bachi da seta nella produzione della sericoltura. Il mio trisavolo commerciava queste conchiglie, portandole nei suoi viaggi con il mulo, unendo così il mondo del lavoro alla tradizione. Quel nome, Cocciularu, era un simbolo d'ingegno e di duro lavoro, un soprannome che narrava la storia di un uomo che sapeva unire le sue radici alla sua vocazione.

Il nostro sangue scorre lungo una linea ininterrotta di mulattieri. Mio nonno, fino agli anni '50, continuò a fare il mestiere di suo padre Pasquale, che a sua volta l’aveva ereditato da Francesco, generato da Antonio, a sua volta figlio di Francesco, e ancora da Rocco, Assunto e un altro Francesco, mulattieri da generazioni. Tre secoli di uomini che conoscevano il peso delle bisacce e il suono dei passi lenti del mulo sulle pietre. Essere mulattiere significava partire quando il cielo era ancora buio, affrontare nebbie fitte, neve, piogge e intemperie. Significava percorrere strade impervie, senza mai fermarsi di fronte a nulla, perché la merce doveva arrivare a destinazione.

Un tempo li chiamavano vaticali, dal latino "viaticus," viaggiatori, pellegrini delle loro giornate. In passato si servivano di carretti per il trasporto, ma poi solo del mulo, perché il mulo è duro, forte, resistente. Era il compagno fedele che poteva sopportare il freddo e la fatica; eppure, persino lui, a volte, soccombeva insieme al suo padrone sotto il peso della montagna e delle sue intemperie.

I miei antenati sono stati viaggiatori instancabili, erranti nel tempo e nello spazio di quei sentieri che li vedevano andare e tornare, sempre fedeli alla loro missione. Questo legame con il passato è viscerale, un culto che porto nel sangue. Sono pellegrino anche io, non di strade ma di memorie, e ogni passo che faccio verso la scoperta della mia storia è un omaggio a loro, agli uomini e alle donne che mi hanno preceduto e che, come radici profonde, ancora oggi mi sorreggono.

Francesco Violi di Raimondo






L'arte della genealogia: una finestra sul passato

Perché guardare al passato? La domanda "chi siamo?" non ha solo risposte psicologiche o filosofiche. Forse sentiamo il bisogno di comprendere il nostro riflesso allo specchio, di dare un nome ai legami e alle esperienze che ci definiscono. In questo viaggio di scoperta, la genealogia assume un ruolo fondamentale: è una sorta di alchimia del ricordo, che trasforma frammenti di vita in identità solide. Scavare nel passato familiare ci permette di riscoprire eredità perdute, di riportare alla luce legami che il tempo ha celato.

Nel corso della storia, le famiglie erano vincoli profondi e radicati. Oggi, con le realtà di nuclei familiari allargati e nuovi modelli, il rischio di perdere le radici è più alto. Eppure, c’è sempre un momento in cui il desiderio di sapere riemerge, in cui ci accorgiamo di quanto la nostra storia personale sia indissolubilmente legata a quella dei nostri antenati.

Ricostruire una genealogia significa molto più che assemblare nomi e date: è un lavoro che svela storie di sofferenza, di gioie, di migrazioni e di terremoti che hanno plasmato le generazioni passate. È un vero e proprio "archivio emozionale," un patrimonio di esperienze e valori che si riflette inconsapevolmente nei nostri comportamenti. La genealogia è il racconto di una memoria collettiva, una trama di ricordi che intreccia passato e presente.

La ricerca genealogica: un percorso tra archivi e testimonianze

Ogni ricerca genealogica parte dalle radici più recenti, dalle informazioni sui parenti più vicini e, da qui, si risale nel tempo. Ogni dettaglio può fare la differenza: date di nascita, matrimonio e morte; luoghi di residenza; relazioni sociali e attività economiche. Le prime indagini si concentrano sui registri anagrafici nei comuni, ma per esplorare periodi più antichi occorre rivolgersi agli archivi diocesani e parrocchiali, dove troviamo i libri dei sacramenti, come battesimi e matrimoni, gli stati delle anime e gli stati liberi, indispensabili per ricostruire legami familiari.

Un passaggio cruciale nella storia della documentazione genealogica è rappresentato dal Concilio di Trento (1545-1563), che nella 24ª sessione dell’11 novembre 1563 introdusse l’obbligo per le parrocchie cattoliche di compilare i registri dei battesimi e dei matrimoni. Fu un passo decisivo per preservare le informazioni familiari, grazie anche alla prescrizione di tenere i registri dei decimi delle confessioni e degli atti delle anime, confermata successivamente con il “Rituale Romanorum” pubblicato nel 1614. Questo sistema divenne un riferimento fondamentale per chi, come me, si occupa di ricostruire storie familiari.

Non esiste un percorso unico: ogni ricerca è un’avventura a sé, influenzata da molteplici fattori. Per esempio, nel mio caso, le mie radici affondano in un piccolo paese, dove gli antenati hanno vissuto per secoli, rendendo la ricerca relativamente semplice. Ma non sempre è così: le difficoltà aumentano quando ci si sposta in grandi città, quando le famiglie si sono trasferite spesso o sono emigrate all'estero. In questi casi, un genealogista deve esplorare migliaia di documenti notarili, spesso privi di indici, oppure consultare archivi speciali come quelli delle Capitanerie di Porto o dei Tribunali, per rintracciare i visti di emigrazione. Ogni documento può raccontare una storia, ma a volte è necessario viaggiare, fissare appuntamenti e ottenere permessi per accedere ai materiali conservati.

Con l’arrivo dello Stato Civile, le fonti si arricchiscono ulteriormente. Durante il periodo napoleonico (1806-1815), con le Restaurazioni e poi con l’istituzione dello Stato Civile Italiano nel 1865, vennero implementati nuovi registri civili che hanno permesso una maggiore tracciabilità delle famiglie. Questo ci permette di avere un quadro più completo e dettagliato delle linee di discendenza.

Le sfide della genealogia

Le complessità di una ricerca genealogica non finiscono qui. La mobilità delle famiglie, i cambiamenti di residenza e di domicilio, spesso legati a motivi professionali, rendono difficile seguire il filo della storia. La lettura delle scritture antiche, in latino e talvolta sbiadite, rappresenta un’altra sfida, così come le discrepanze nelle date e nei nomi usati, che possono portare a equivoci. Le genealogie nascondono trabocchetti, come omonimie e nomi d’uso, che richiedono attenzione e pazienza.

Una riflessione sulle radici

Fermiamoci un attimo a riflettere su cosa significhi avere radici profonde. Per nascere, ognuno di noi ha bisogno di 

  • 4 Nonni 
  • 8 Bisnonni 
  • 16 Trisnonni 
  • 32 Quadrisavoli 
  • 64 Quintisavoli 
  • 128 Esasavoli 
  • 256 Eptasavoli 
  • 512 Ottasavoli 
  • 1024 Enneasavoli 
  • 2048 Decasavoli 

fino a un totale di 4.094 antenati nelle ultime undici generazioni, coprendo un arco di circa 300 anni. Questi antenati hanno vissuto battaglie, superato avversità, e sperimentato momenti di gioia e soddisfazione. Ogni frammento della loro forza e del loro amore ha contribuito a farci esistere oggi.

Essere genealogisti significa onorare questo patrimonio di umanità, riconoscere il coraggio e la resilienza di chi ci ha preceduto. È un lavoro di gratitudine e di amore, che ci invita a esplorare, a ricordare e a trasmettere alle future generazioni il dono della vita che abbiamo ricevuto.

In questo cammino, è nostro dovere onorare i nostri antenati. Essere grati per tutto ciò che hanno affrontato e per ciò che ci hanno lasciato in eredità: la possibilità di essere qui, ora, a raccontare la loro storia e, in qualche modo, anche la nostra.

 


 

Platì, 25.02.2021 - Convegno: RADICI IN ASPROMONTE

Più che una lezione di storia, quello che io voglio fare oggi è parlare di storia ma sotto forma di racconti. Voglio offrirvi dei racconti che trovano la loro radice nell’essenza della terra come segno di appartenenza di un popolo, a una classe sociale se vogliamo, ma soprattutto come elemento distintivo della dignità dell’uomo lavoratore. Il titolo di questa giornata porta come incipit del discorso il nome di Caci il brigante o meglio Ferdinando Mittica di Platì. Prendiamo per un attimo tale figura come espressione sociale, come emblema o meglio come uno dei risvolti che scaturiscono dalle lotte legate alla terra spesso originate dai soprusi del signorotto di turno o puramente per questioni politiche. Ma partiamo soprattutto dal titolo di questa manifestazione Radici in Aspromonte. Dire radici significa andare in fondo alle cose. Io prima di essere uno storico sono archeologo di formazione e l’archeologia ha una bellissima similitudine con la vita: se vogliamo giungere al vero dobbiamo scavare. Prime delle lotte contadine del ‘900, prima della vicenda di Mittica, dobbiamo fare un salto nella Platì del 1700. Tolstoj diceva che “solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. L’agricoltura indica cos’è più e cos’è meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra.” Platì nasce da contadini, il primo cittadino del villaggio delle origini era un contadino. In uno dei registri parrocchiali, vi è un appunto che ci ha lasciato un arciprete dell’800 e cita: "Memoria: Il re Ferdinando d’Aragona nell’anno 1505 diede alla Casa "Cariati la foresta PRATI e BARBARA, e da quest'epoca in poi PLATI' riconosce la sua origine, perché i Principi di Cariati per richiamare della gente ad abitarvi concessero casa ed orto franco di censo (ossia canone)." Ecco che per il sorgere del villaggio, elemento cardine è stato proprio la terra, o meglio la possibilità di lavorare la terra e vivere del raccolto.

Premesso questo torniamo al nostro racconto: siamo a metà del 1700 e un gruppo di contadini si trova col proprio bestiame tra le foreste di Platì e dintorni. Un giorno come tanti alcuni di loro vengono presi d’assalto da un gruppo armato di bastoni e quant’altro. I primi sono cittadini di Platì e gli altri sono gli uomini al servizio del barone Francesco Coscia di Careri e visti i secoli che sono trascorsi possiamo tranquillamente menzionare nome e cognome:




Come possediamo questi nominativi? Come conosciamo questa storia? È un episodio che ai tempi ha avuto una rilevanza tale da finire davanti la regia corte ed ecco che nel 1762 vengono pubblicati tutti gli atti e la storia della vicenda. Ma qual è il punto della discussione? Perché questi cittadini di Platì si vedono attaccati dagli “armigeri” del barone Coscia? Ce lo racconta anche tale pubblicazione:




Ecco cosa succede: i cittadini di Platì ritengono che il territorio dove pascolare fosse promiscuo a quello di Careri e Natile e per le norme dell’epoca era possibile pascere i propri animali senza essere soggetti a tassazione. Ma il barone Coscia non sembra molto concorde al punto che contesta questa promiscuità territoriale raccontando che se vi è, è presente solo dal punto di vista sociale, ma forse non con Platì:



Per capire meglio la questione di questa presunta promiscuità serve fare un ulteriore salto nel passato, ed ecco che giungiamo alle origini di Platì:



Il caso è giunto a una conclusione. I cittadini di Platì da due secoli circa pascolavano in quelle terre senza subire tassazione finché, giunte in possesso della famiglia Coscia, il barone in questione pensò di lucrare maltrattando i platiesi non solo:



Quella dei soprusi del signore verso i contadini è una storia che trova le prime manifestazioni nel cuore del Medioevo quando si forma quella struttura sociale che tutti abbiamo conosciuto a scuola con il termine feudalesimo, struttura consolidatosi poi sotto uno dei sovrani più importanti del Medioevo, Carlo Magno. Ma torniamo a noi. Trovo di notevole importanza la pubblicazione di questi atti del processo per diversi fattori, come quello giuridico. Inoltre è determinante per ricostruire la storia delle origini di Platì. Pensiamo che da dall’atto di concessione del feudo alla famiglia Spinelli (1505) fino a metà 700 appunto, non vi sono pubblicazioni note che ci raccontano di Platì. Serve la terra, serve un episodio di prepotenza, di abuso del potere feudale affinché Platì trovi menzioni e riconoscimenti. Mi colpisce come, in un contesto dove il più forte fa da padrone, i contadini di Platì siano riusciti ad avere la meglio. 

Passa circa un secolo e Platì ritorna nuovamente sotto i riflettori per uno dei casi più famosi della nostra storia passata, cioè quello di Ferdinando Mittica, conosciuto come uno dei briganti più importanti del Risorgimento meridionale. Ha come soprannome caci, termine antico che significa “cattivo”, ma prima di divenire ciò che lo ha resto famoso era un “don” di Platì. Questo era un appellativo che veniva dato agli uomini di chiesa, ai nobili, ai benestanti, ai proprietari terrieri. Il Mittica, (con la C e non la G) apparteneva ad una di queste famiglie. Il nonno, di cui egli portava il nome (e quindi qui possiamo già sfatare la diceria che si chiamasse Ferdinando in omaggio al re borbonico), era stato anche sindaco di Platì. Ferdinando Mittica nasce il 23 giugno 1826 e muore a Natile, il 30 settembre 1861, dopo aver cavalcato l’onda della rivoluzione. 
Mi spiego meglio: 
lo vediamo sulla scena sin dal moto del 1848 quando viene liberato dal carcere di Ardore dove si trovava per aver ferito un uomo con un coltello. Si tratta di quell’ondata di moti rivoluzionari conosciuti anche come Primavera dei popoli, sorti inizialmente in Spagna, nel 1820, con lo scopo di opporsi ai regimi assolutisti, e che attraversano poi tutta l’Europa culminando con quelli del 1848 (diciamo ancora fare un quarantotto per sottintendere scompiglio e confusione). Ma è durante l’anno dell’Unificazione che Mittica diventa il "famigerato brigante". Personaggio che ridesta l’interessa della corte spagnola al punto da inviare il generale catalano Borjes nel tentativo di una “reconquista”. Io quest’oggi non voglio soffermarmi sulle vicende brigantesche ma sottolineare come, e qui lo riporto più come una provocazione, secondo me ai primordi del malcontento del Mittica, più che un sentimento di patriottismo liberale, vi fossero dei dissidi sul possesso di alcune terre, fra la famiglia di questi e quella dei potenti Oliva, signori per eccellenza della Platì passata. È ancora la terra a fare da scintilla reazionaria e stando alla famosa legge di Newton, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e forse questo è proprio il caso del Mittica il cui padre e i fratelli di questi, dovettero vendere, per un debito contratto del Ferdinando Mittica avo, i terreni denominati Palumbo e Margherita proprio a don Domenico Oliva figlio di Don Arcangelo. Questo avvenne nel 1828. Vi è una sentenza a mezzo della quale era stato incarcerato Ferdinando Mittica il vecchio. È in via di pubblicazione la vicenda che vede questo contrasto fra gli Oliva e i Mittica e sono autorizzato a parlarne dallo studioso Pino Macrì. Quindi è per una questione di terre e per insolvenza di un debito accumulato da parte dei Mittica che viene condannato il nonno del brigante. Questa è all’origine del contrasto. A Platì è successo quello che succedeva nel resto della Calabria laddove in quasi tutti i comuni si formavano due partiti antagonisti per interessi personali. Cioè se un partito si appoggiava a una determinata forza politica, di conseguenza l’altro partito sosteneva la forza politica avversa. La stessa cosa è successa, quasi certamente (in attesa di ulteriori sviluppi) a Platì. Pertanto c’è da domandarsi: e se gli Oliva si fossero schierati con i Borboni, i Mittica cosa avrebbero fatto? E questi sarebbe diventato il Caci che conosciamo oggi? La storia non si fa con i se ma ritengo sia fondamentale tener conto di questa vicenda e quindi ammettere che il legittimismo del Mittica non era puro e disinteressato ma era una reazione al fatto che gli Oliva avevano aderito all’Unità d’Italia. Scrive Mario La Cava nel 1986: La società del tempo era molto stabile, non consentiva facili cambiamenti di stato. Vi erano proprietari, le cui terre erano di origine feudale; e tra questi il più grande, Oliva, che aveva proprietà che da Palmi arrivavano ininterrottamente a Bovalino e a Locri, sullo Ionio. Quasi tutto il popolo, composto di contadini e di pastori, viveva delle sue terre. Famosi erano i formaggi locali che ora non si possono comprare a nessun prezzo, famoso il pane fatto in casa con una qualità di grano duro detto “dimini” di cui resta oggi solo il nome. L’olio, spremuto nei torchi a mano dalle olive nere piccoline, era leggero anche agli stomaci delicati. Vi erano i proprietari di origine borghese; e poi gli artigiani, numerosi e bravi. Il popolo era molto devoto alla Madonna di Loreto a cui è intitolata la chiesa del luogo. Certamente gli spiriti liberali non erano diffusi nemmeno tra gli esponenti più importanti delle classi civili. Garibaldi li convertì facilmente al suo passaggio; ma poi, fin dal 1861, sorsero condizioni perché i borbonici trovassero in Mittica un capo per guidare la guerriglia. A lui si unì il generale spagnolo Borjes, per raggruppare le forze della campagna anche risorgimentale, che passò alla storia come brigantaggio politico o comune. Il Mittica fu preso e ucciso; la sua testa, ficcata su una pertica, fu portata in giro per il paese.1

Per scrivere certe storie, a volte, ci vuole tempo, il tempo della distanza, il tempo della sedimentazione degli avvenimenti. Il tempo per leggere e rileggere più volte i fatti da punti di vista diversi, mettere in discussione i luoghi comuni ed illuminare con una luce nuova il buio delle chiacchiere. Serve il tempo giusto per osservare gli avvenimenti dalla giusta distanza.2

Ecco quindi un’altra storia nella storia che trova il suo stato embrionale nelle intricate questioni terriere di un piccolo paesino dell’Aspromonte.
È sempre di questo periodo quello che viene raccontato nella famosa pubblicazione di Francesco Perri, lo scrittore di Careri, cioè Emigranti, opera che gli è valso il premio Mondadori nel 1928. Perri parla per esperienza e ci narra delle lotte dei contadini pandurioti, ci dipinge un affresco grandioso del mondo contadino e pastorale dell’Aspromonte. Il romanzo trova ispirazione nelle usurpazioni delle terre demaniali, molto diffuse in Calabria dopo l’Unità d'Italia e che rappresentano un’importante pagina della storia del nostro Meridione. È necessario riportare un passaggio delle Disposizioni governative per lo stralcio delle operazioni demaniali nelle province napoletane, stampate a Napoli dalle stamperie nazionali, nel 1861. “Dopo la legge eversiva della feudalità in queste province napoletane del 2 agosto 1806, il Governo del tempo intese dare un fecondo sviluppo al principio della proprietà privata, disponendo, che si sciogliessero tutte le promiscuità di dominio e di usi, esistenti tra gli antichi feudatari, le Chiese ed i Comuni: che le parti assegnate in libera proprietà a questi ultimi fossero distribuite in quote ai cittadini più poveri di ciascun Comune, sotto la retribuzione di un annuo canone”. In realtà invece di essere distribuiti ai cittadini più poveri di ciascun Comune, quei beni, in tutta la Calabria, sono stati usurpati dalle famiglie più benestanti. Non dobbiamo dimenticare I fatti di Casignana, opera di Mario La Cava. Pubblicata per la prima volta nel 1974, narra le vicende della lotta contadina all’indomani della Grande Guerra in un paese alle pendici dell’Aspromonte, per il rispetto della legge Visocchi, secondo cui ai reduci di guerra era concesso di sfruttare i terreni incolti. A Casignana, feudo della principessa di Roccella, i contadini iniziano a bonificare la foresta Callistro ma, un mese prima della marcia su Roma, la concessione delle terre viene revocata; i contadini, guidati dal sindaco socialista Filippo Zanco, occupano pacificamente la foresta; il prefetto intima lo sgombero, le forze dell’ordine attaccano e si consuma la tragedia.

In questo excursus storico, tornando a Platì, bisogna menzionare gli anni 50 o meglio la tragica alluvione dell’ottobre del 1951 che ha causato diversi morti. È proprio l'alluvione che determina lo sconvolgimento sociale di Platì. Un inesorabile processo di emigrazione che dissangua il tessuto economico platiese e dimezza nel giro di pochi anni la popolazione che contava più di 6.000 abitanti. Come aveva ricordato il giornalista Gianni Carteri in un suo articolo del 1992, è un richiamarsi a vicenda; dall'Australia e dalle Americhe. Si abbandonano le campagne e conseguentemente i proprietari terrieri incominciano a perdere il loro potere. Furono in prima fila ad ostacolare il trasferimento dell'abitato di Platì che si voleva portare nella zona di S. Ilario dello Ionio. Si optò per il consolidamento. Con i contadini vanno via tanti bravissimi artigiani (in special modo sarti) cerniera sociale tra la borghesia terriera e la classe contadina: il vero collante insieme agli intellettuali (non pochi) della società platiese.3

Voglio concludere questa mia relazione con una citazione di dello scrittore e regista Franco Arminio: 

"Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento".


1 Mario La Cava, Corriere della Sera 19 febbraio 1986
2 Francesco Tripodi, sul blog Storia delle sette fiumare, maggio 2020
3 Gianni Carteri Testi e foto: Calabria – Anno XX – Nuova Serie - N. 83 - giugno 1992


 


Intanto giugno passò e giunse luglio più torrido e desolato del consueto. Da un paio di mesi non si vedeva più una nuvola in cielo. All’alba o al tramonto certe striature di nuvole rosse dileguavano incenerite nelle fornaci del crepuscolo. I fichi maturavano e bisognava curarli.[1] Nella casa posta in Panduri c’era un certo via vai da ore.

Donna Teresa era in travaglio ormai da tutta la notte. Don Vincenzo, 40 anni, un mestiere ben consolidato e attivo, non aveva chiuso occhio.

donna Teresa Sciplini
donna Teresa Sciplini

Si era rintanato nel suo laboratorio in attesa e per ammazzare il tempo spostava e rispostava barattoli pieni di spezie, unguenti e quant’altro. Sembrava un alchimista intento a distillare il tanto ricercato alambicco ma in verità viveva, come tutti i padri, l’angoscia della nascita e l’incertezza del futuro che attendeva il figlio.

Continuava a ripetere non far tempeste, luglio mio, sennò il mio vino addio. In casa Perri si attendeva il maschietto poiché la centenaria donna Rosina, sibilla e guaritrice del paese, aveva sentenziato che sarebbe stato l’erede sperato. Donna Giuseppa Pipicella, madre di don Vincenzo, aveva fatto visita alla vecchia diverse volte, con tanto di pane fresco e prodotti della terra.

Tra un paternoster a San’Anna e un’antica litania dialettale alla madre terra, reminiscenza di un mondo arcaico ancora in vita, le due donne avevano pregato per un maschietto. Avrebbe preso il nome del nonno e, in quanto primogenito, la gestione delle proprietà. Da tre giorni c’era luna nuova e le preghiere si erano moltiplicate. Era ormai tempo.

Il 15 luglio di circa cinquant’anni prima vi era stata la soppressione della tanto temuta inquisizione spagnola; lo stesso giorno del 1815 Napoleone si era arreso agli inglesi. Lo stesso Napoleone, il 15 luglio del 1808 aveva nominato Gioacchino Murat, re delle Due Sicilie. Nel medesimo dì del 1799 veniva scoperta la Stele di Rosetta, chiave fondamentale per la comprensione dei geroglifici egizi.

A Verona di quel 15 luglio 1885 nasceva Leonardo Olschki, futuro filologo italiano naturalizzato poi statunitense, primo di sei figli. Mentre a Padròn, a 20 km da Santiago di Compostela, moriva Rosalía de Castro, poetessa e scrittrice spagnola di lingua e nazionalità galiziana.

Intanto a Careri era giunta l’alba, i contadini si erano accinti verso le campagne. In luglio hai la pera, la mela, la pesca e il ficodindia.

Don Vincenzo si era accomodato sui gradoni dell’ingresso, il sonno aveva avuto il sopravvento al primo manifestarsi delle luci quando si vide strattonare verso l’interno. La levatrice, donna formosa e portentosa, lo aveva sottratto al riposo prendendolo dal carré della camicia.

Erano le undici e mezza circa e dalla camera patronale un nuovo pianto aveva ridestato gli animi e placate le ansie, rincuorato le attese e riposte le preghiere. Francesco Antonio Giuseppe Perri veniva al mondo nel giorno di S. Bonaventura.

[1] Perri Francesco, Emigranti – Mondadori, 1928


Francesco Violi


Organizzare la mostra fotografica a Platì è stato per me come restituire un pezzo di storia al mio paese. È stata un’opportunità per riscoprire i volti, i luoghi, le tradizioni e le storie che definiscono l'identità di una comunità spesso dimenticata o fraintesa. Platì ha una storia ricca, ma finora raramente raccontata. Questa mostra è stata forse la prima occasione culturale in cui gli abitanti di Platì hanno potuto vedere il loro passato riflesso in quelle immagini d'epoca, uniche e preziose.

La mia passione per la fotografia antica e la riscoperta del passato hanno dato vita a questo progetto. Ogni volto, ogni sguardo impresso su quelle fotografie è un ponte verso il tempo che fu, un modo per mantenere vivi i ricordi, per onorare chi ci ha preceduto. In quegli scatti non ci sono solo immagini, ma vite, famiglie, storie di un paese che merita di essere conosciuto per quello che realmente è.

Rivedere quei volti è stato per me come un incontro con i miei antenati, con il mio passato e con la memoria collettiva di Platì. È stato un onore per me creare questa mostra, e spero che sia servita a far comprendere il valore della nostra storia e a ispirare altre iniziative per mantenere viva la memoria di Platì.

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