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La cattedra narrante - Perché dobbiamo studiare la storia?

“La Torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio Una società che vive solo nel presente, senza ricordare il passato e senza sognare il futu...



L'arte della genealogia: una finestra sul passato

Perché guardare al passato? La domanda "chi siamo?" non ha solo risposte psicologiche o filosofiche. Forse sentiamo il bisogno di comprendere il nostro riflesso allo specchio, di dare un nome ai legami e alle esperienze che ci definiscono. In questo viaggio di scoperta, la genealogia assume un ruolo fondamentale: è una sorta di alchimia del ricordo, che trasforma frammenti di vita in identità solide. Scavare nel passato familiare ci permette di riscoprire eredità perdute, di riportare alla luce legami che il tempo ha celato.

Nel corso della storia, le famiglie erano vincoli profondi e radicati. Oggi, con le realtà di nuclei familiari allargati e nuovi modelli, il rischio di perdere le radici è più alto. Eppure, c’è sempre un momento in cui il desiderio di sapere riemerge, in cui ci accorgiamo di quanto la nostra storia personale sia indissolubilmente legata a quella dei nostri antenati.

Ricostruire una genealogia significa molto più che assemblare nomi e date: è un lavoro che svela storie di sofferenza, di gioie, di migrazioni e di terremoti che hanno plasmato le generazioni passate. È un vero e proprio "archivio emozionale," un patrimonio di esperienze e valori che si riflette inconsapevolmente nei nostri comportamenti. La genealogia è il racconto di una memoria collettiva, una trama di ricordi che intreccia passato e presente.

La ricerca genealogica: un percorso tra archivi e testimonianze

Ogni ricerca genealogica parte dalle radici più recenti, dalle informazioni sui parenti più vicini e, da qui, si risale nel tempo. Ogni dettaglio può fare la differenza: date di nascita, matrimonio e morte; luoghi di residenza; relazioni sociali e attività economiche. Le prime indagini si concentrano sui registri anagrafici nei comuni, ma per esplorare periodi più antichi occorre rivolgersi agli archivi diocesani e parrocchiali, dove troviamo i libri dei sacramenti, come battesimi e matrimoni, gli stati delle anime e gli stati liberi, indispensabili per ricostruire legami familiari.

Un passaggio cruciale nella storia della documentazione genealogica è rappresentato dal Concilio di Trento (1545-1563), che nella 24ª sessione dell’11 novembre 1563 introdusse l’obbligo per le parrocchie cattoliche di compilare i registri dei battesimi e dei matrimoni. Fu un passo decisivo per preservare le informazioni familiari, grazie anche alla prescrizione di tenere i registri dei decimi delle confessioni e degli atti delle anime, confermata successivamente con il “Rituale Romanorum” pubblicato nel 1614. Questo sistema divenne un riferimento fondamentale per chi, come me, si occupa di ricostruire storie familiari.

Non esiste un percorso unico: ogni ricerca è un’avventura a sé, influenzata da molteplici fattori. Per esempio, nel mio caso, le mie radici affondano in un piccolo paese, dove gli antenati hanno vissuto per secoli, rendendo la ricerca relativamente semplice. Ma non sempre è così: le difficoltà aumentano quando ci si sposta in grandi città, quando le famiglie si sono trasferite spesso o sono emigrate all'estero. In questi casi, un genealogista deve esplorare migliaia di documenti notarili, spesso privi di indici, oppure consultare archivi speciali come quelli delle Capitanerie di Porto o dei Tribunali, per rintracciare i visti di emigrazione. Ogni documento può raccontare una storia, ma a volte è necessario viaggiare, fissare appuntamenti e ottenere permessi per accedere ai materiali conservati.

Con l’arrivo dello Stato Civile, le fonti si arricchiscono ulteriormente. Durante il periodo napoleonico (1806-1815), con le Restaurazioni e poi con l’istituzione dello Stato Civile Italiano nel 1865, vennero implementati nuovi registri civili che hanno permesso una maggiore tracciabilità delle famiglie. Questo ci permette di avere un quadro più completo e dettagliato delle linee di discendenza.

Le sfide della genealogia

Le complessità di una ricerca genealogica non finiscono qui. La mobilità delle famiglie, i cambiamenti di residenza e di domicilio, spesso legati a motivi professionali, rendono difficile seguire il filo della storia. La lettura delle scritture antiche, in latino e talvolta sbiadite, rappresenta un’altra sfida, così come le discrepanze nelle date e nei nomi usati, che possono portare a equivoci. Le genealogie nascondono trabocchetti, come omonimie e nomi d’uso, che richiedono attenzione e pazienza.

Una riflessione sulle radici

Fermiamoci un attimo a riflettere su cosa significhi avere radici profonde. Per nascere, ognuno di noi ha bisogno di 

  • 4 Nonni 
  • 8 Bisnonni 
  • 16 Trisnonni 
  • 32 Quadrisavoli 
  • 64 Quintisavoli 
  • 128 Esasavoli 
  • 256 Eptasavoli 
  • 512 Ottasavoli 
  • 1024 Enneasavoli 
  • 2048 Decasavoli 

fino a un totale di 4.094 antenati nelle ultime undici generazioni, coprendo un arco di circa 300 anni. Questi antenati hanno vissuto battaglie, superato avversità, e sperimentato momenti di gioia e soddisfazione. Ogni frammento della loro forza e del loro amore ha contribuito a farci esistere oggi.

Essere genealogisti significa onorare questo patrimonio di umanità, riconoscere il coraggio e la resilienza di chi ci ha preceduto. È un lavoro di gratitudine e di amore, che ci invita a esplorare, a ricordare e a trasmettere alle future generazioni il dono della vita che abbiamo ricevuto.

In questo cammino, è nostro dovere onorare i nostri antenati. Essere grati per tutto ciò che hanno affrontato e per ciò che ci hanno lasciato in eredità: la possibilità di essere qui, ora, a raccontare la loro storia e, in qualche modo, anche la nostra.

 


 

Platì, 25.02.2021 - Convegno: RADICI IN ASPROMONTE

Più che una lezione di storia, quello che io voglio fare oggi è parlare di storia ma sotto forma di racconti. Voglio offrirvi dei racconti che trovano la loro radice nell’essenza della terra come segno di appartenenza di un popolo, a una classe sociale se vogliamo, ma soprattutto come elemento distintivo della dignità dell’uomo lavoratore. Il titolo di questa giornata porta come incipit del discorso il nome di Caci il brigante o meglio Ferdinando Mittica di Platì. Prendiamo per un attimo tale figura come espressione sociale, come emblema o meglio come uno dei risvolti che scaturiscono dalle lotte legate alla terra spesso originate dai soprusi del signorotto di turno o puramente per questioni politiche. Ma partiamo soprattutto dal titolo di questa manifestazione Radici in Aspromonte. Dire radici significa andare in fondo alle cose. Io prima di essere uno storico sono archeologo di formazione e l’archeologia ha una bellissima similitudine con la vita: se vogliamo giungere al vero dobbiamo scavare. Prime delle lotte contadine del ‘900, prima della vicenda di Mittica, dobbiamo fare un salto nella Platì del 1700. Tolstoj diceva che “solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. L’agricoltura indica cos’è più e cos’è meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra.” Platì nasce da contadini, il primo cittadino del villaggio delle origini era un contadino. In uno dei registri parrocchiali, vi è un appunto che ci ha lasciato un arciprete dell’800 e cita: "Memoria: Il re Ferdinando d’Aragona nell’anno 1505 diede alla Casa "Cariati la foresta PRATI e BARBARA, e da quest'epoca in poi PLATI' riconosce la sua origine, perché i Principi di Cariati per richiamare della gente ad abitarvi concessero casa ed orto franco di censo (ossia canone)." Ecco che per il sorgere del villaggio, elemento cardine è stato proprio la terra, o meglio la possibilità di lavorare la terra e vivere del raccolto.

Premesso questo torniamo al nostro racconto: siamo a metà del 1700 e un gruppo di contadini si trova col proprio bestiame tra le foreste di Platì e dintorni. Un giorno come tanti alcuni di loro vengono presi d’assalto da un gruppo armato di bastoni e quant’altro. I primi sono cittadini di Platì e gli altri sono gli uomini al servizio del barone Francesco Coscia di Careri e visti i secoli che sono trascorsi possiamo tranquillamente menzionare nome e cognome:




Come possediamo questi nominativi? Come conosciamo questa storia? È un episodio che ai tempi ha avuto una rilevanza tale da finire davanti la regia corte ed ecco che nel 1762 vengono pubblicati tutti gli atti e la storia della vicenda. Ma qual è il punto della discussione? Perché questi cittadini di Platì si vedono attaccati dagli “armigeri” del barone Coscia? Ce lo racconta anche tale pubblicazione:




Ecco cosa succede: i cittadini di Platì ritengono che il territorio dove pascolare fosse promiscuo a quello di Careri e Natile e per le norme dell’epoca era possibile pascere i propri animali senza essere soggetti a tassazione. Ma il barone Coscia non sembra molto concorde al punto che contesta questa promiscuità territoriale raccontando che se vi è, è presente solo dal punto di vista sociale, ma forse non con Platì:



Per capire meglio la questione di questa presunta promiscuità serve fare un ulteriore salto nel passato, ed ecco che giungiamo alle origini di Platì:



Il caso è giunto a una conclusione. I cittadini di Platì da due secoli circa pascolavano in quelle terre senza subire tassazione finché, giunte in possesso della famiglia Coscia, il barone in questione pensò di lucrare maltrattando i platiesi non solo:



Quella dei soprusi del signore verso i contadini è una storia che trova le prime manifestazioni nel cuore del Medioevo quando si forma quella struttura sociale che tutti abbiamo conosciuto a scuola con il termine feudalesimo, struttura consolidatosi poi sotto uno dei sovrani più importanti del Medioevo, Carlo Magno. Ma torniamo a noi. Trovo di notevole importanza la pubblicazione di questi atti del processo per diversi fattori, come quello giuridico. Inoltre è determinante per ricostruire la storia delle origini di Platì. Pensiamo che da dall’atto di concessione del feudo alla famiglia Spinelli (1505) fino a metà 700 appunto, non vi sono pubblicazioni note che ci raccontano di Platì. Serve la terra, serve un episodio di prepotenza, di abuso del potere feudale affinché Platì trovi menzioni e riconoscimenti. Mi colpisce come, in un contesto dove il più forte fa da padrone, i contadini di Platì siano riusciti ad avere la meglio. 

Passa circa un secolo e Platì ritorna nuovamente sotto i riflettori per uno dei casi più famosi della nostra storia passata, cioè quello di Ferdinando Mittica, conosciuto come uno dei briganti più importanti del Risorgimento meridionale. Ha come soprannome caci, termine antico che significa “cattivo”, ma prima di divenire ciò che lo ha resto famoso era un “don” di Platì. Questo era un appellativo che veniva dato agli uomini di chiesa, ai nobili, ai benestanti, ai proprietari terrieri. Il Mittica, (con la C e non la G) apparteneva ad una di queste famiglie. Il nonno, di cui egli portava il nome (e quindi qui possiamo già sfatare la diceria che si chiamasse Ferdinando in omaggio al re borbonico), era stato anche sindaco di Platì. Ferdinando Mittica nasce il 23 giugno 1826 e muore a Natile, il 30 settembre 1861, dopo aver cavalcato l’onda della rivoluzione. 
Mi spiego meglio: 
lo vediamo sulla scena sin dal moto del 1848 quando viene liberato dal carcere di Ardore dove si trovava per aver ferito un uomo con un coltello. Si tratta di quell’ondata di moti rivoluzionari conosciuti anche come Primavera dei popoli, sorti inizialmente in Spagna, nel 1820, con lo scopo di opporsi ai regimi assolutisti, e che attraversano poi tutta l’Europa culminando con quelli del 1848 (diciamo ancora fare un quarantotto per sottintendere scompiglio e confusione). Ma è durante l’anno dell’Unificazione che Mittica diventa il "famigerato brigante". Personaggio che ridesta l’interessa della corte spagnola al punto da inviare il generale catalano Borjes nel tentativo di una “reconquista”. Io quest’oggi non voglio soffermarmi sulle vicende brigantesche ma sottolineare come, e qui lo riporto più come una provocazione, secondo me ai primordi del malcontento del Mittica, più che un sentimento di patriottismo liberale, vi fossero dei dissidi sul possesso di alcune terre, fra la famiglia di questi e quella dei potenti Oliva, signori per eccellenza della Platì passata. È ancora la terra a fare da scintilla reazionaria e stando alla famosa legge di Newton, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e forse questo è proprio il caso del Mittica il cui padre e i fratelli di questi, dovettero vendere, per un debito contratto del Ferdinando Mittica avo, i terreni denominati Palumbo e Margherita proprio a don Domenico Oliva figlio di Don Arcangelo. Questo avvenne nel 1828. Vi è una sentenza a mezzo della quale era stato incarcerato Ferdinando Mittica il vecchio. È in via di pubblicazione la vicenda che vede questo contrasto fra gli Oliva e i Mittica e sono autorizzato a parlarne dallo studioso Pino Macrì. Quindi è per una questione di terre e per insolvenza di un debito accumulato da parte dei Mittica che viene condannato il nonno del brigante. Questa è all’origine del contrasto. A Platì è successo quello che succedeva nel resto della Calabria laddove in quasi tutti i comuni si formavano due partiti antagonisti per interessi personali. Cioè se un partito si appoggiava a una determinata forza politica, di conseguenza l’altro partito sosteneva la forza politica avversa. La stessa cosa è successa, quasi certamente (in attesa di ulteriori sviluppi) a Platì. Pertanto c’è da domandarsi: e se gli Oliva si fossero schierati con i Borboni, i Mittica cosa avrebbero fatto? E questi sarebbe diventato il Caci che conosciamo oggi? La storia non si fa con i se ma ritengo sia fondamentale tener conto di questa vicenda e quindi ammettere che il legittimismo del Mittica non era puro e disinteressato ma era una reazione al fatto che gli Oliva avevano aderito all’Unità d’Italia. Scrive Mario La Cava nel 1986: La società del tempo era molto stabile, non consentiva facili cambiamenti di stato. Vi erano proprietari, le cui terre erano di origine feudale; e tra questi il più grande, Oliva, che aveva proprietà che da Palmi arrivavano ininterrottamente a Bovalino e a Locri, sullo Ionio. Quasi tutto il popolo, composto di contadini e di pastori, viveva delle sue terre. Famosi erano i formaggi locali che ora non si possono comprare a nessun prezzo, famoso il pane fatto in casa con una qualità di grano duro detto “dimini” di cui resta oggi solo il nome. L’olio, spremuto nei torchi a mano dalle olive nere piccoline, era leggero anche agli stomaci delicati. Vi erano i proprietari di origine borghese; e poi gli artigiani, numerosi e bravi. Il popolo era molto devoto alla Madonna di Loreto a cui è intitolata la chiesa del luogo. Certamente gli spiriti liberali non erano diffusi nemmeno tra gli esponenti più importanti delle classi civili. Garibaldi li convertì facilmente al suo passaggio; ma poi, fin dal 1861, sorsero condizioni perché i borbonici trovassero in Mittica un capo per guidare la guerriglia. A lui si unì il generale spagnolo Borjes, per raggruppare le forze della campagna anche risorgimentale, che passò alla storia come brigantaggio politico o comune. Il Mittica fu preso e ucciso; la sua testa, ficcata su una pertica, fu portata in giro per il paese.1

Per scrivere certe storie, a volte, ci vuole tempo, il tempo della distanza, il tempo della sedimentazione degli avvenimenti. Il tempo per leggere e rileggere più volte i fatti da punti di vista diversi, mettere in discussione i luoghi comuni ed illuminare con una luce nuova il buio delle chiacchiere. Serve il tempo giusto per osservare gli avvenimenti dalla giusta distanza.2

Ecco quindi un’altra storia nella storia che trova il suo stato embrionale nelle intricate questioni terriere di un piccolo paesino dell’Aspromonte.
È sempre di questo periodo quello che viene raccontato nella famosa pubblicazione di Francesco Perri, lo scrittore di Careri, cioè Emigranti, opera che gli è valso il premio Mondadori nel 1928. Perri parla per esperienza e ci narra delle lotte dei contadini pandurioti, ci dipinge un affresco grandioso del mondo contadino e pastorale dell’Aspromonte. Il romanzo trova ispirazione nelle usurpazioni delle terre demaniali, molto diffuse in Calabria dopo l’Unità d'Italia e che rappresentano un’importante pagina della storia del nostro Meridione. È necessario riportare un passaggio delle Disposizioni governative per lo stralcio delle operazioni demaniali nelle province napoletane, stampate a Napoli dalle stamperie nazionali, nel 1861. “Dopo la legge eversiva della feudalità in queste province napoletane del 2 agosto 1806, il Governo del tempo intese dare un fecondo sviluppo al principio della proprietà privata, disponendo, che si sciogliessero tutte le promiscuità di dominio e di usi, esistenti tra gli antichi feudatari, le Chiese ed i Comuni: che le parti assegnate in libera proprietà a questi ultimi fossero distribuite in quote ai cittadini più poveri di ciascun Comune, sotto la retribuzione di un annuo canone”. In realtà invece di essere distribuiti ai cittadini più poveri di ciascun Comune, quei beni, in tutta la Calabria, sono stati usurpati dalle famiglie più benestanti. Non dobbiamo dimenticare I fatti di Casignana, opera di Mario La Cava. Pubblicata per la prima volta nel 1974, narra le vicende della lotta contadina all’indomani della Grande Guerra in un paese alle pendici dell’Aspromonte, per il rispetto della legge Visocchi, secondo cui ai reduci di guerra era concesso di sfruttare i terreni incolti. A Casignana, feudo della principessa di Roccella, i contadini iniziano a bonificare la foresta Callistro ma, un mese prima della marcia su Roma, la concessione delle terre viene revocata; i contadini, guidati dal sindaco socialista Filippo Zanco, occupano pacificamente la foresta; il prefetto intima lo sgombero, le forze dell’ordine attaccano e si consuma la tragedia.

In questo excursus storico, tornando a Platì, bisogna menzionare gli anni 50 o meglio la tragica alluvione dell’ottobre del 1951 che ha causato diversi morti. È proprio l'alluvione che determina lo sconvolgimento sociale di Platì. Un inesorabile processo di emigrazione che dissangua il tessuto economico platiese e dimezza nel giro di pochi anni la popolazione che contava più di 6.000 abitanti. Come aveva ricordato il giornalista Gianni Carteri in un suo articolo del 1992, è un richiamarsi a vicenda; dall'Australia e dalle Americhe. Si abbandonano le campagne e conseguentemente i proprietari terrieri incominciano a perdere il loro potere. Furono in prima fila ad ostacolare il trasferimento dell'abitato di Platì che si voleva portare nella zona di S. Ilario dello Ionio. Si optò per il consolidamento. Con i contadini vanno via tanti bravissimi artigiani (in special modo sarti) cerniera sociale tra la borghesia terriera e la classe contadina: il vero collante insieme agli intellettuali (non pochi) della società platiese.3

Voglio concludere questa mia relazione con una citazione di dello scrittore e regista Franco Arminio: 

"Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento".


1 Mario La Cava, Corriere della Sera 19 febbraio 1986
2 Francesco Tripodi, sul blog Storia delle sette fiumare, maggio 2020
3 Gianni Carteri Testi e foto: Calabria – Anno XX – Nuova Serie - N. 83 - giugno 1992



Nella sua opera più conosciuta, Francesco Perri svela tutti quei tratti contadini di un mondo che lui custodiva dentro e a cui ha dato voce.

Era il 1928 e i racconti e la vita dei suoi padri prendevano forma dentro le pagine di Emigranti.

“La notte era tiepida ma triste, una notte di fine maggio con una falce di luna calante, che pendeva sopra Aspromonte. Il burrone s’incurvava ripido, verso la valle, poi strapiombava. Era tutto sparso di ginepri e di finocchi selvatici; a metà costa una piccola quercia era nata sul precipizio e stormiva al vento leggero. Le stelle in cielo erano rare e brillanti, in un azzurro pallido: la luna toccava la cima dell’Appennino”.

L’Aspromonte, che è stata fonte di ispirazione per Francesco Perri, è una montagna splendida, che ha un fascino particolare.

Arriva ad una altitudine di quasi 2000 metri e ha particolare geologia, che è il risultato di una evoluzione geologica e morfologica iniziata più di 500 milioni di anni fa e ancora in corso.

Il Geoparco dell’Aspromonte, diventato di recente sito Unesco, si trova lungo la catena degli Appennini, e corrisponde a un frammento della catena alpina staccatosi dalla Spagna, dall’Italia nord-orientale, dalla Sardegna e dalla Corsica. Un insieme di montagne, crinali e altopiani si alterna a valli profonde scolpite da torrenti naturali unici, chiamati “fiumare”, che nel tempo hanno modellato la dura roccia del substrato cristallino-metamorfico e creato cascate spettacolari. L’eccezionale geomorfologia del Geoparco consente una bella veduta a 360 gradi dello Stretto di Messina, del Monte Etna, delle Isole Eolie, dei territori calabresi greci, del territorio di Locri e della Piana di Gioia Tauro.

Non stupisce che il poeta Perri abbia amato sempre questi luoghi, sullo sfondo del profilo delle case del suo paese natale.


Francesco Violi

 


Intanto giugno passò e giunse luglio più torrido e desolato del consueto. Da un paio di mesi non si vedeva più una nuvola in cielo. All’alba o al tramonto certe striature di nuvole rosse dileguavano incenerite nelle fornaci del crepuscolo. I fichi maturavano e bisognava curarli.[1] Nella casa posta in Panduri c’era un certo via vai da ore.

Donna Teresa era in travaglio ormai da tutta la notte. Don Vincenzo, 40 anni, un mestiere ben consolidato e attivo, non aveva chiuso occhio.

donna Teresa Sciplini
donna Teresa Sciplini

Si era rintanato nel suo laboratorio in attesa e per ammazzare il tempo spostava e rispostava barattoli pieni di spezie, unguenti e quant’altro. Sembrava un alchimista intento a distillare il tanto ricercato alambicco ma in verità viveva, come tutti i padri, l’angoscia della nascita e l’incertezza del futuro che attendeva il figlio.

Continuava a ripetere non far tempeste, luglio mio, sennò il mio vino addio. In casa Perri si attendeva il maschietto poiché la centenaria donna Rosina, sibilla e guaritrice del paese, aveva sentenziato che sarebbe stato l’erede sperato. Donna Giuseppa Pipicella, madre di don Vincenzo, aveva fatto visita alla vecchia diverse volte, con tanto di pane fresco e prodotti della terra.

Tra un paternoster a San’Anna e un’antica litania dialettale alla madre terra, reminiscenza di un mondo arcaico ancora in vita, le due donne avevano pregato per un maschietto. Avrebbe preso il nome del nonno e, in quanto primogenito, la gestione delle proprietà. Da tre giorni c’era luna nuova e le preghiere si erano moltiplicate. Era ormai tempo.

Il 15 luglio di circa cinquant’anni prima vi era stata la soppressione della tanto temuta inquisizione spagnola; lo stesso giorno del 1815 Napoleone si era arreso agli inglesi. Lo stesso Napoleone, il 15 luglio del 1808 aveva nominato Gioacchino Murat, re delle Due Sicilie. Nel medesimo dì del 1799 veniva scoperta la Stele di Rosetta, chiave fondamentale per la comprensione dei geroglifici egizi.

A Verona di quel 15 luglio 1885 nasceva Leonardo Olschki, futuro filologo italiano naturalizzato poi statunitense, primo di sei figli. Mentre a Padròn, a 20 km da Santiago di Compostela, moriva Rosalía de Castro, poetessa e scrittrice spagnola di lingua e nazionalità galiziana.

Intanto a Careri era giunta l’alba, i contadini si erano accinti verso le campagne. In luglio hai la pera, la mela, la pesca e il ficodindia.

Don Vincenzo si era accomodato sui gradoni dell’ingresso, il sonno aveva avuto il sopravvento al primo manifestarsi delle luci quando si vide strattonare verso l’interno. La levatrice, donna formosa e portentosa, lo aveva sottratto al riposo prendendolo dal carré della camicia.

Erano le undici e mezza circa e dalla camera patronale un nuovo pianto aveva ridestato gli animi e placate le ansie, rincuorato le attese e riposte le preghiere. Francesco Antonio Giuseppe Perri veniva al mondo nel giorno di S. Bonaventura.

[1] Perri Francesco, Emigranti – Mondadori, 1928


Francesco Violi

 


Intanto bisogna precisare che l’originale anglosassone è political correctness, cioè “correttezza politica” e non “politicamente corretto”, quindi a priori si parte male e forse ora si sta esagerando. Questa estrema attenzione degli aspetti formali sta diventando estremismo. Sta succedendo come con la parola democrazia. Se ne abusa a tal punto che in nome della democrazia e della libertà di parola io posso scrivere il caxxo che mi pare. Vero? Io ne ho le balls piene di questi pregiudizi liberal-moralisti dove concetti linguistici vengono sostituiti con nuovi idiomi che, finalmente, tutelano tutto e tutti. Non fraintendetemi, decliniamo pure i ruoli al femminile, giusto, e sappiamo tutti che si usa dire "fratelli" raggruppando fratelli e sorelle. Il latino frater indica ciascuno dei figli nati dagli stessi genitori. È un senso collettivo della nostra grammatica che non vuole essere assolutamente sessista. Ma cosa c'entrano adesso Dumbo, gli Aristogatti e Peter Pan? Dai perché ogni convenzione consolidata deve per forza rappresentare un possibile attacco a qualche individuo?  

Dumbo (1941), Peter Pan (1953) e gli Aristogatti (1953) io continuerò a farli guardare ai miei figli anche se non hanno ancora compiuto i 7 anni, il nuovo limite di età che concede loro la visione ma sempre in presenza di un adulto (è il momento in cui la sala tv diventa zona arancione). Per quanto riguarda l'elefantino più famoso al mondo il problema è nel canto degli afroamericani che lavorano nelle piantagioni, Peter Pan chiami gli indiani pellerossa mentre fra le avventure di Duchessa e dei suoi micini spunta il siamese Shun Gon, troppo caricaturizzato con i suoi occhi a mandorla e le bacchettine. Ma scusate! allora è stato scordato Romeo che canta "Ma pure da emigrato, Mica so’ cambiato. Io so’ Romeo, Er mejo del Colosseo" Non pensate che in questo caso (siamo nel '53) qui vi è un'allusione agli emigranti italiani, forse latin lover ma comunque sia un pò girovaghi? 

E Semola? Ragazzino mingherlino e maltrattato. Cosa dobbiamo dire? E perché Robin Hood è impersonato da una volpe? Fossi un animalista denuncerei la Disney. Gli altri animali sono meno furbi del quadrupede che scaglie le frecce? Che ne direbbe Esopo?

Sapete qual è il punto? Non bendare i bambini o non permettere loro di vedere questi bellissimi cartoni animati ma accompagnarli in questo, attendere il momento in cui ci chiederanno ma perché Peter Pan li chiama pellerossa? Perché sono di colore quelli che raccolgono il cotone? E perché il siamese è disegnato così? Allora sarò io genitore a raccontare loro delle storie che narrano di identità e razze (posso ancora scrivere questa parola?), di pregiudizi e modi di dire, senza togliere la verità alla storia e alle identità ma raccontando come sono andate le cose, parlando dei diversamente abili, dei neri, degli ebrei, dei gay, insegnando quali espressioni verbali usare, definendoli con criterio, se è necessario, non perché di gusti e orientamenti sessuali diversi, o di colore della pelle diverso, ma perché uomini (si qui intendo anche le donne) e affinché non si creino delle idee e dei giudizi sbagliati. Noi genitori (e qui non intendo solo chi "genera" - non si sa mai!) siamo in grado di educare vero? educĕre -"trar fuori" il loro pensiero e, passo dopo passo, tener vivo il senso critico di fronte al reale (come dovrebbe fare un bravo insegnante).

Questo revisionismo storico lo trovo eccessivo e fuorviante. Anzi odio proprio questo moralismo! (non saprei come altro definirlo)

E aggiungo una cosa: Sloth (I Goonies - 1985) indossa la maglietta con la S di Superman!


Già sul titolo si può dire molto: "via da", è un allontanarsi, un distaccarsi da qualcosa. Sembra quasi una fuga, una rinuncia anzi un sacrificio. Infatti penso sia proprio questa la parola esatta: SACRIFICIO - fare per il sacro, fare per qualcosa di più grande. 

VIA DALL'ASPROMONTE. Collana: Velvet - 2019, pp 222 - Rubbettino Editore

Ne abbiamo parlato un giorno, davanti a un caffè, nella splendida piazza San Carlo di Torino. Due calabresi, amanti della cultura, al Caffè San Carlo a discutere di storie che appartengono a tutti. Ci siamo ritrovati poi, qualche mese dopo, precisamente nel dicembre 2019, al prestigioso Circolo dei Lettori a una serata voluta dall'associazione culturale Cooperativa Letteraria. 

Pietro racconta di se, d'altronde come può non esserci un pezzo di se stessi quando si scrive. Ma racconta anche di un appartenenza che è quella alla terra di Calabria, in questo caso particolare alla terra aspromontana. Una volta parlando con un antropologo mi è stato detto "dopo gli ebrei, il popolo che ha più vissuto la migrazione è quello dei calabresi". Non so se fosse una battuta o meno ma una cosa è certa: siamo migranti, noi calabresi particolarmente. Il primo peregrinare non è stato verso le Americhe ma dalle campagne alle città. Avete presente quei casi in cui si strappa una pianta d'ulivo dal terreno natio per trapiantarlo al centro di un giardino in città? Ebbene penso sia proprio questo l'effetto. Quell'ulivo non sarà più lo stesso. Ad un certo punto, e nella storia raccontata da Criaco a partire dall'alluvione del 1951 che interessò paesi come Africo, Platì e molti altri ancora, la gente è stata costretta a lasciare le proprie case per una prospettiva migliore seppur incerta. Quelle casa di fango e pietre erano le loro case. Li vi era l'anima, i canti e le storie attorno al focolare, le litanie e i pianti da lutto dei loro, anzi dei nostri antenati. Eppure la sorte, o la fortuna per alcuni, d'un tratto ha imposto la migranza. Ma soprattutto, tornado al libro di Pietro, è stata la mancanza di una strada a costringere gli abitanti di Africo vecchio ad abbandonare il giaciglio materno. Inizialmente c'è stato il tentativo di costruirla quella strada contro ogni forma di opposizione e ostacolo rappresentati una volta dal burocrate di turno, un'altra dalla figura di don Totò, il brigante di turno. Ma non il solito brigante dei soliti stereotipi sul sud. Il don Totò raccontato da Pietro Criaco impersonifica il vecchio, una dimensione ancestrale ma stabile, congelata nella sua linea spazio-tempo e scandita dai soliti ritmi cioè quelli dettati dal mutamento delle stagioni e da tutto ciò che ne consegue soprattutto per la vita dei campi e degli animali da pascolo. Una condizione esistenziale che è quella del pastore e del contadino e dove il nuovo, appunto, può spaventare. Don Totò, a mio avviso, impersonifica proprio questa paura. La paura di fronte qualcosa che possa scuotere e interrompere il ticchettio di quei ritmi. Tutto questo vissuto dagli occhi di un bambino, Andrea, protagonista e voce narrante. Osservatore di tutte le vicende che interessano la sua gente. Soprattutto quando il padre guida i propri compaesani alle costruzione di quella strada che tanto faciliterebbe le cose come permettere al dottore di giungere dalla marina e far si che quella donna, in procinto di mettere alla luce una nuova creatura, non muoia di parto. Il padre lotta, don Totò si oppone, Andrea sogna. Perché è proprio questo che in qualsiasi contesto e condizione offre la possibilità di spiccare il volo oltre le proprie altezze e misure, oltre le proprie paure.

Una storia nuova di una Calabria antica da raccontare anche ai non calabresi. Una storia per tutti. Una Calabria e un sud raccontato con gli occhi e il sentimento di chi è dovuto partire per un futuro diverso, forse migliore. Il libro di Pietro Criaco, già al 1° posto nel premio internazionale di letteratura città di Como ha ispirato il film diretto da Mimmo Calopresti "Aspromonte, terra degli ultimi".

“I calabresi mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici, come la bontà dei loro frutti e dei loro vini. Amore disperato del loro paese, di cui riconoscono la vita cruda, che hanno fuggito, ma che in loro è rimasta allo stato di ricordo e di leggenda dell'infanzia.”
CORRADO ALVARO
Ennio Morricone (Roma, 10 novembre 1928 – Roma, 6 luglio 2020)



Io Ennio Morricone sono morto.. lui stesso l'ha composto. E si, si tratta di una composizione, ben pensata. Una parola dopo l'altra come una nota dopo l'altra. Così come pensava e strutturava le sue opere, ha pensato bene di scrivere lui stesso il suo necrologio. Nel 2010 andai a un suo concerto tenutosi a Torino. Al rientro verso casa, io e il mio amico Luca, commentavamo quanto fosse stato eccezionale e unico l'ascolto di quelle note, quando a un tratto mi cadde l'occhio su un mega poster davanti un'edicola. Quei manifesti giganti che pubblicizzano gli eventi. Inutile dirvi che quel poster è appeso in casa mia. Non potevo lasciarlo la, capitemi! 
E comunque ho pianto! posso dirlo vero? Non sono riuscito ad arrivare al punto di poter stringere la mano al Maestro ma mi si è stretto il cuore alla notizia. Chi suonerà ancora quei pezzi? Chi li penserà? C'era una volta Morricone. Chi sarà in grado di comporre quella magia? Forse è questo che mi spaventa. La paura non ci possa essere un altro grande della musica come lo è stato Morricone. E noi abbiamo bisogno della musica come abbiamo bisogno della poesia e di un bel film che ha una bella musica dietro che è poesia.

Si alzava presto, un po' di ginnastica, colazione e poi subito a lavoro. Un foglio di carta, una matita ed il pentagramma, il calderone dove mescolava la genialità, il sentimento, il cigolio di una porta, lo scricchiolio di un passo in agguato e il fischio di un uomo in attesa. Ed ecco la magia. Non un'opera usciva fuori senza il giudizio della moglie Maria, compagna per tutta la vita. “Nell'amore come nell'arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l'intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata. E naturalmente la fedeltà." E lui, Ennio Morricone, ha tenuto duro, è stato fedele alla sua musica, quella che gli veniva dal cuore. Ne ha fatto una Mission.

Mio padre mi ha iniziato alla colonne sonore di Morricone attraverso i western del grande Sergio Leone, suo compagno di classe in fanciullezza e amico. E quant'è vero ora che non possiamo guardare la scena di quando il buono, il brutto, il cattivo quindi il biondo, Tuco e Sentenza si trovano al cimitero per l'ultimo duello, senza la musica, ma possiamo benissimo ascoltare il pezzo musicale immaginandoci tutto. Quegli sguardi che si studiano, si sospettano e si aspettano per l'ultima mossa. Un sigaro in bocca e due colpi di pistola. Ma riuscite a guardare "l'estasi dell'oro" senza quell'adrenalina partorita dalla colonna sonora celebre anche per la voce della bellissima Susanna Rigacci?
E no, non possiamo. Lo stesso Tuco (Eli Wallach) avrebbe fermato la sua corsa, avrebbe guardato al centro dell schermo e detto "hei biondo senza musica non si corre"

Clint Eastwood, Western, Movies, Attore, Spaghetti 
Sono grato per questi doni che Dio ci fa. Ci mette davanti musicisti, poeti, sportivi, grandi uomini che nella loro piccolezza e umiltà, come quella dimostrata sempre da Morricone, si rivelano strumenti di un Qualcosa più grande che noi cerchiamo. Senza sapere come e perché ma ne abbiamo bisogno. Abbiamo la necessità di qualcosa che vada oltre le nostre misure e le stature che ci diamo. Abbiamo la necessità della Bellezza.

Continuiamo a leggere poesie, continuiamo ad ascoltare la musica, quella bella! 
A proposito: "scion scion"!









Quante volte abbiamo sentito questa frase, diventata quasi un modo di dire. Ebbene ci siamo arrivati anche questa volta, anche con questo caos, queste incertezze, queste news comunicate alle 10 di sera o seduti su una cattedra. Tabelle, statistiche, rossetti che spiccano e decreti che sfiancano. La maturità in mascherina in file per 5 col resto di booo, vedremo, intanto spostati che disinfettiamo la sedia e misuriamo la febbre. I guanti non servono; distanti 2 m. Da domani sentiremo nuovamente suonare la campanella. Quel suono che ci accompagnava quotidianamente e scandiva le paure degli orali e gli incontri in corridoio, "dammi un cinque frate". Domani il cinque non possiamo ancora darcelo, forse pugno ma meglio gomito. E tra una gomitata e l'altra quella campanellina suonerà e saremo felici, non la sentiremo e basta ma la ascolteremo scusandoci però innanzi al suono di ben altre campane. Si scusateci, non abbiamo potuto salutarvi e accompagnarvi dietro la macchina ma domani vi penseremo. Racconteremo come ci siamo sentiti. Perché vogliamo dircelo. Tra un meriggiare pallidi e assorti, il gre gre di ranelle, udiremo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Ascolta come stai, come ti sei sentito in questo periodo tu studente che studente non sei stato. Lasciami chiederti, porre una domanda a me che docente sono e non sono stato. Il tuo volto in uno schermo come una maschera pirandelliana forse. È stata tutta una farsa? No perché ci siamo cercati, abbiamo atteso e siamo arrivati di nuovo in classe, seduti in quel banco. Quei graffiti domani, o ragazza, ti sembreranno le pitture rupestri dell'uomo che fu e che ancora chiede di essere ascoltato. È il cuore dell'uomo che chiede di essere ascoltato. È il canto di Ulisse che valica muri con cocci aguzzi di bottiglie. Domani saremo tutti più maturi. Lo siamo già. Domani sarò docente, ancora. In docere, con cuore in ascolto per te. E ascolteremo ancora il suono di una campanella, il passo solito della bidella che è poesia. Buona maturità. Forza ragazzi.


Prof ma l'esame come sarà?


Francesco Violi
Un prof in ascolto
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